[recensioni – Penne e Pellicole] Raccontare gli animali – di M. Reggio
Pubblichiamo, per gentile concessione della rivista Lo Straniero, la recensione di “Penne e pellicole. Gli animali, il cinema e la letteratura” (M. Filippi, E. Maggio – Mimesis 2014), tratta dal n. di agosto/settembre della rivista, pp. 186-187.
Le voci e gli sguardi delle altre specie
di Marco Reggio
Un altro libro sugli animali? Penne e pellicole: gli animali, la letteratura e il cinema (Mimesis) è una raccolta di saggi che ha l’ambizione di non essere l’ennesimo prodotto editoriale su un tema che riscontra un crescente interesse. Gli autori – Massimo Filippi ed Emilio Maggio – sono anzi consapevoli dell’«esorbitante proliferazione della presenza degli animali in ogni forma dell’immaginario umano», tanto da notare, foucaultianamente, come questa apparente attenzione verso i non umani possa costituire un «occultamento per moltiplicazione». In un periodo in cui le parole sugli animali proliferano, in cui qualche scrittore o “filosofo” prova anche a costruire su questi corpi la propria carriera, essi subiscono, oltre allo sfruttamento materiale, una sorta di sfruttamento simbolico e culturale. Gli articoli di Penne e pellicole, in parte già pubblicati sulle pagine della rivista antispecista Liberazioni, testimoniano quindi l’adozione di un approccio differente, tentando faticosamente un dialogo con gli animali attraverso un’originale selezione di film, racconti, romanzi e saggi di diversa provenienza.
Si tratta di utilizzare strumenti inusuali per la pubblicistica animalista – dall’analisi testuale alla critica letteraria e cinematografica -, forzandone i limiti, e senza dimenticare gli spunti di una tradizione filosofica che, pur nel suo incrollabile antropocentrismo, può aprire insospettate possibilità di incontro con l’altro/a (Filippi e Maggio attingono soprattutto a Derrida, Agamben, Foucault, Deleuze, Baudrillard, Debord). E senza dimenticare le questioni politiche che la convivenza fra specie, con il suo portato di sfruttamento e violenza, inevitabilmente pone: la prospettiva degli autori è infatti dichiaratamente schierata dalla parte di chi vive la propria misera vita in un allevamento e la conclude in un mattatoio.
Le pagine di Penne e pellicole sono in primo luogo percorse dal tentativo ostinato di rintracciare delle presenze, di far emergere quegli esseri che la critica ha perlopiù ignorato o rimosso, magari per enfatizzare i caratteri egualitaristi più radicali purché circoscritti nell’ambito della nostra specie. Appaiono quindi, gli animali, nell’opera di Frantz Fanon: come strumento di denigrazione simbolica delle masse dei colonizzati africani, uno dei meccanismi più potenti del razzismo acutamente individuato dallo scrittore di origini martinicane. Ma affiorano anche, in modo commovente, fra le righe di Vita e destino, in cui Vassilij Grossman (fra i primi ad entrare a Treblinka liberata) affianca la violenza organizzata su vasta scala dei lager nazisti alle pratiche di macellazione, la condizione dei deportati a quella di singole galline e mucche, pesci e cavalli, la spersonalizzazione subita dagli ebrei sotto il regime nazista a quella degli animali, similmente denudati di fronte ad un potere assoluto. Li troviamo, seguendo questo percorso tutt’altro che sistematico, nell’opera di Busqued (il noir Sotto questo sole tremendo), dove la tragedia di un mondo post-apocalittico colpisce tutte le forme di vita, e la resistenza emerge (anche) nelle azioni di uno zebù fuggito dal mattatoio o degli elefanti che si ribellano nei circhi; li vediamo cercando fra gli scritti di teorici in senso stretto, come Günther Anders o Emmanuel Lévinas (il primo racconta del suo viaggio ad Auschwitz in Discesa all’Ade, esortando ad «ampliare in modo sistematico la nostra sensibilità» con riferimento al mondo animale simboleggiato da alcuni girini che aveva ucciso da bambino; il secondo riesce a sospendere il proprio antropocentrismo evocando Bobby, un cane che viveva ai confini del campo nazista in cui era prigioniero).
La separazione simbolica e materiale fra umani e altri animali, le cui origini si perdono nella storia della civiltà, e che si conferma come un dispositivo ben funzionante spesso proprio negli autori citati, necessita di essere spiegata (come è possibile che siamo arrivati a costruire il soggetto umano in opposizione alla nostra stessa animalità?). Filippi e Maggio, in questo sforzo genealogico, vanno alla ricerca di indizi nascosti, come quelli rilevati nell’opera di Ernst Jünger o nel film-documentario di Werner Herzog The cave of forgotten dreams, in cui i dipinti rupestri della grotta di Chauvet rivelano un primo gesto di presa di distanza dagli animali tramite uno sguardo che diventa rappresentazione. Di più: il colonialismo dello sguardo denunciato da Abdellatif Kechiche in Venere nera mostra, nell’analisi di Maggio, il crocevia di specismo, razzismo e maschilismo in cui si è costruita la coscienza occidentale nell’800.
Gli animali, nel nostro immaginario, appariranno dunque quasi sempre come simboli di qualcos’altro di umano, strumenti malleabili per l’elaborazione di messaggi politici o morali, specialmente nel cinema, come i cavalli di Steven Spielberg (War Horse), veicoli – loro malgrado – di una visione che riafferma l’eccezionalismo umano e lo spirito del sogno americano.
Queste incursioni critiche sembrano puntare dritto ad una domanda centrale: è possibile recuperare uno sguardo diverso, una poetica fatta da (e con) i singoli animali? La risposta – o meglio, le risposte – si trovano per esempio nella passeggiata dell’allievo di Claude Lévi-Strauss Philippe Descola, in cui iniziano a vacillare gli steccati che separano natura e cultura, umani e non umani; oppure nella sorte dei ricci dell’omonimo romanzo di Linnio Accorroni, nelle tracce e nelle tane di Michel Serres, o nel film di Marco Bellocchio su Eluana Englaro, Bella addormentata. Così, tornando indietro negli anni a Misfits (John Houston), i cavalli di Spielberg riappaiono restituiti alla propria individualità; o, tornando ancora più in là nel tempo all’atto fondativo della cinematografia, L’uscita dalle officine Lumière, un labrador può ora essere considerato come il vero protagonista. Gli animali si riscoprono capaci di resistere attivamente all’oppressione nella prosa di Vincenzo Pardini, che «trascrive e traduce» in scrittura le parole di questi corpi inascoltati, trovano una voce comune alla nostra ne La fisica della nostalgia di Georgi Gospodinov, diventano finalmente degni di lutto (Jean Grenier, In morte di un cane), fino ad ispirare a una vera e propria «estetica altrimenti-che-umana», quella della filmografia di Michelangelo Frammartino. Lo sguardo più radicalmente restituito al soggetto è forse, in definitiva, quello di Balthazar, l’asino cui Robert Bresson (Au hasard Balthazar) lascia la parola contro il dispositivo antropocentrico, mentre passa dalla schiavitù in campagna allo sfruttamento nel circo, ignorato e percosso, ma ancora capace di tentare una coraggiosa evasione. Una fuga che fallisce, ma che ci chiede di schierarci dalla sua parte.
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