Cos’è il femminismo socialista? – di Barbara Ehrenreich

 

Barbara Ehrenreich (1941) è una giornalista americana, autrice di numerosi saggi che spaziano dall’analisi delle forme di lavoro alla condizione delle donne nella società attuale. È una socialista e una femminista storica di “seconda ondata”. Traduciamo qui un suo contributo al dibattito sui rapporti tra femminismo e socialismo perché ci sembra interessante il modo in cui tenta di collegare la prospettiva dell’analisi di classe e di genere, pur mantenendone le specificità e l’autonomia. L’articolo, pubblicato orginariamente su Winnel 1976, è successivamente apparso nello stesso anno suiWorking Papers on Socialism & Feminism, pubblicato dal New American Movement (NAM).

Traduzione: MM.
Testo originale

 

In un certo senso il femminismo socialista esiste già, forse a un livello non troppo articolato, da molto tempo. Sei stufa: del lavoro, delle bollette, di tuo marito (o ex), della scuola dei tuoi bambini, del lavoro domestico, del bisogno di essere carina, del fatto di non essere carina, del fatto che ti guardano, del fatto che non ti guardano (e allo stesso modo non ti ascoltano) etc. Se pensi a tutte queste cose e come siano tra loro connesse, e pensi a cosa bisognerebbe cambiare, e poi ti guardi intorno cercando qualche parola che possa tenere insieme tutti questi pensieri in una forma abbreviata, ne verrai in qualche modo fuori con “femminismo socialista”.

Molte di noi sono giunte al femminismo socialista in questo modo. Stavamo cercando una parola, un termine, una frase che potesse esprimere tutti i nostri interessi e i nostri principi in un modo che né il “socialismo”, né il “femminismo” sembravano fare. Devo ammettere che molte femministe socialiste di mia conoscenza non sono contente nemmeno dell’espressione “femminismo socialista”. Da un lato è troppo lunga (non ripongo molte speranze in un movimento contrassegnato da un trattino); dall’altra, è fin troppo corto per quello che, in fin dei conti, è un femminismo realmente socialista, internazionalista, anti-razzista, e anti-eterosessuale.

Il problema di avere una nuova etichetta di questo tipo è che crea un’aura istantanea di settarismo. “Femminismo socialista” diventa una sfida, un mistero, un tema in se stesso e di se stesso. Abbiamo portavoci, conferenze, articoli sul “socialismo femminista” – benché sappiamo perfettamente che sia il “socialismo” che il “femminismo” sono troppo vasti e troopo inclusivi per essere oggetti di qualsiasi discorso, conferenza, articolo consapevole. La gente, comprese femministe socialiste dichiarate, si chiedono ansiosamente: “cos’è il femminismo socialista?”. C’è una specie di aspettativa generale che esso sia (o che stia per essere ad ogni momento, magari al prossimo discorso, conferenza o articolo) una geniale sintesi di proporzioni storiche mondiali – un salto evolutivo oltre Marx, Freud e Wollstonecraft. Oppure che esso si rivelerà essere un niente, una moda messa su da poche femministe scontente e donne socialiste, una distrazione temporanea.

Voglio provare a togliere un po’ del mistero che è cresciuto attorno al femminismo socialista. Un modo logico di cominciare è dare uno sguardo al socialismo e al femminismo separatamente. Come vede il mondo un socialista e, più precisamente, un marxista? E come lo vede una femminista? Per cominciare, marxismo e femminismo hanno una cosa importante in comune: sono modi critici di guardare il mondo. Entrambi estirpano la mitologia popolare e la saggezza del “senso comune”, costringendoci a guardare alla nostra esperienza in un modo nuovo. Entrambi cercano di comprendere il mondo – non in termini di statiche bilance o simmetrie (come accade nella scienza sociale tradizionale) – ma in termini di antagonismo. Giungono a conclusioni che sono scomode e fastidiose nel momento stesso in cui sono liberanti. Non c’è modo di assumere un’ottica marxista o femminista e di rimanere degli spettatori. Comprendere la realtà che si mostra nuda attraverso quelle analisi significa iniziare un azione di cambiamento.

Il marxismo si occupa delle dinamiche di classe della società capitalista. Ogni scienziato sociale sa che la società capitalista è caratterizzata da una ingiustizia più o meno pesante, sistemica. Il marxismo comprende queste ineguaglianze come derivanti da processi che sono intrinseci al capitalismo come sistema economico. Una minoranza della popolazione (la classe capitalista) possiede tutte le industrie, le fonti di energia, le risorse etc. da cui tutti gli altri dipendono per poter sopravvivere. La grande maggioranza (la classe lavoratrice) deve lavorare di necessità, sotto condizioni dettate dai capitalisti, per il salario che i capitalisti pagano. Poiché i capitalisti fanno profitti pagando meno in termini di salario rispetto al valore effettivamente prodotto dai lavoratori, il rapporto tra le due classi è necessariamente caratterizzato da un antagonismo inconciliabile. La classe capitalista deve la propria stessa esistenza al fatto che si continui a sfruttare la classe lavoratrice. Ciò che tiene insieme questo sistema di classe è, in ultima analisi, la forza. La classe capitalista controlla (direttamente o indirettamente) i mezzi della violenza organizzata rappresentati dallao stato – la polizia, le carceri etc. Solo attraverso una lotta rivoluzionaria finalizzata alla presa del potere statale la classe lavoratrice può liberare se stessa e, alla fine, tutta la popolazione.

Il femminismo si occupa della disuguaglianza familiare. Tutte le società umane sono caratterizzate dalla disuguaglianza tra i sessi. Se gettiamo una sguardo alle società umane, passando attraverso i secoli e i continenti, vediamo che esse sono state comunemente caratterizzate da: il soggiogamento delle donne all’autorità maschile, sia con la famiglia che con la comunità in genere; la reificazione delle donne come forme di proprietà; la divisione sessuale del lavoro in cui le donne sono confinate ad attività come: far crescere i bambini, provvedere a servizi personali per i maschi adulti e dedicarsi a specifiche forme di lavoro produttivo (solitamente di scarso prestigio). Le femministe, colpite dalla quasi-universalità di questi fatti, ne hanno cercato spiegazioni nei “dati” biologici che sottostanno all’esistenza sociale umana. Gli uomini sono, nella media, fisicamente più forti delle donne, specialmente rispetto alle donne in cinta o che si prendono cura di bambini. Inoltre, gli uomini hanno il potere di mettere in cinta le donne. Di conseguenza, la forma presa dall’ineguaglianza sessuale – per quanto varie possano essere da cultura a cultura – riposa, in ultima analisi, in quello che è chiaramente un vantaggi fisico dei maschi sulle femmine. Ciò significa che essi risultano, in ultima istanza, sulla violenza o sulla minaccia della violenza.

L’antica radice biologica della supremazia maschile – il fatto della violenza maschile – è solitamente oscurata dalle legge e dalle convenzioni che regolano i rapporti tra i sessi in ogni cultura particolare. Ma è comunque presente, secondo l’analisi femminista. La possibilità dell’aggressione maschile rimane come un costante monito alle donne “cattive” (ribelli, aggressive), e spinge le donne “buone” alla complicità con la supremazia maschile. Il premio per essere “buone” (“carine”, sottomesse) è la protezione dall’arbitraria violenza maschile e, in alcuni casi, la sicurezza economica.

Il marxismo spazza via i miti sulla “democrazia” e il “pluralismo”, rivelando un sistema di dominio di classe che poggia sullo sfruttamento forzato. Il femminismo distrugge i miti dell'”istinto” e dell’amore romantico e mostra la legge maschile come legge basata sulla forza. Entrambe le analisi ci costringono a guardare una ingiustizia fondamentale. La scelta è tra il conforto che ci possono dare i miti e, come dice Marx, lavorare per un ordine sociale che non ha bisogno di miti che lo sostengono.

È possibile sommare marxismo e femminismo e chiamare questa somma “socialismo femminista”. Infatti questo è ciò che fanno spesso molte femministe socialiste – una specie di ibrido – quando sostengono il femminismo nei circoli socialisti o il socialismo nei circoli femministi. Un problema nel lasciare le cose così, tuttavia, è che fa sì che la gente continui a chiedersi: “beh, ma che cosa è in realtà?” oppure a domandarci “quale è la contraddizione principale?”. Questo tipo di domande, che suonano così urgenti e autorevoli, spesso ci bloccano e ci impediscono di andare avanti: “fai una scelta!”, “sii una cosa o l’altra!”. Ma noi sappiamo che c’è coerenza politica nel socialismo femminista. Non siamo degli ibridi, né teniamo i piedi in due staffe.

Per giungere a quella coerenza politica dobbiamo distinguerci, come femministe, da altri tipi di femministe e, come marxiste, da altri tipi di marxisti. Dobbiamo riuscire a isolare il femminismo socialista sia nel femminismo che nel socialismo. Solo allora ci sarà la possibilità che le cose si “sommino” per creare qualcosa che sia più di una instabile giustapposizione.

Penso che molte femministe radicali e socialiste saranno d’accordo con la mia breve caratterizzazione del femminismo, finora. Il problema con il femminismo radicale, dal punto di vista del femminismo socialista, è che esso non va oltre. Si fissa all’universalità della supremazia maschile: le cose non sono mai cambiate; tutti i sistemi sociali sono patriarcali; l’imperialismo, il militarismo e il capitalismo sono tutte semplici espressioni di una innata aggressività maschile, etc.

Il problema che sorge da tutto questo, da un punto di vista femminista e socialista, non è solo che esclude gli uomini (e la possibilità di una riconciliazione con loro su una base veramente umana ed egualitaria), ma che esclude un sacco di cose che riguardano le donne. Ad esempio, liquidare un paese socialista come la Cina come “patriarcato” – come ho sentito fare da femministe radicali – singifica ignorare le lotte reali e le conquiste di milioni di donne. Le socialiste femministe, mentre sono d’accordo sul fatto che ci sia qualcosa di atemporale e universale nell’oppressione delle donne, insistono sul fatto che esso prende forme diverse in diversi contesti, e che le differenze sono di vitale importanza. C’è differenza tra una società in cui il sessismo si esprime nella forma dell’infanticidio femminile e una società in cui il sessismo prende la forma di una iniqua rappresentanza nel Comitato Centrale. Ed è una differenza per cui vale la pena dare la vita.

Una delle variazioni storiche sul tema del sessismo che dovrebbe riguardare tutte le femministe è la serie di cambiamenti che giunsero con la transizione da una società agraria al capitalismo industriale. Non è una questione accademica. Il sistema sociale che il capitalismo industriale ha rimpiazzato era, infatti, patriarcale e sto usando ora il termine nel suo senso originario, per indicare un sistema in cui la produzione è centrata sull’unità domestica ed è diretta dal maschio più anziano. Il fatto è che il capitalismo industriale giunse e tolse il terreno da sotto i piedi al patriarcato. La produzione passò nelle fabbriche e gli individui si separarono dalla famiglia per diventare “liberi” salariati. Dire che il capitalismo ha sconquassato l’organizzazione produttiva e la vita familiare patriarcale non significa, ovviamente, dire che il capitalismo ha abolito la supremazia maschile! Ma significa dire che le forme particolari di oppressione sessuale di cui facciamo esperienza oggi sono, ad un livello significativo, degli sviluppi recenti. Un’enorme discontinuità storica si frappone tra noi e il vero patriarcato. Se vogliamo comprendere la nostra esperienza di donne oggi, dobbiamo iniziare a considerare il capitalismo come sistema.

Ci sono ovviamente altre strade attraverso cui sarei potuta giungere alla stessa conclusione. Avrei potuto semplicemente dire: noi ci interessiamo alle donne più oppresse di tutte – le donne povere o le lavoratrici, le donne del terzo mondo etc. e per tale ragione siamo costretti a comprendere e ad affrontare il capitalismo. Avrei potuto dire che abbiamo bisogno di volgerci al sistema di classe semplicemente perché le donne sono membri di classi. Ma sto cercando di tirare fuori qualcos’altro a proposito della nostra prospettiva femminista: non c’è modo di comprendere come il sessismo agisce sulle nostre vite senza porlo nel contesto storico del capitalismo.

Penso che molte femministe socialiste saranno anche d’accordo, finora, con la mia breve esposizione della teoria marxista. E il problema, di nuovo, è che c’è un sacco di gente (li chiamerò “marxisti meccanicisti”) che non procedono oltre. Per questa gente, le uniche cose “reali” e importanti che accadono nella società capitalista sono quelle legate al processo produttivo o alla sfera politica tradizionale. Da tale punto di vista, ogni altra parte di esperienza e di esistenza sociale – cose che hanno a che fare con l’educazione, la sessualità, la ricreazione, la famiglia, l’arte, la musica, il lavoro domestico – è periferico rispetto alle dinamiche centrali del cambiamento sociale; fa parte della “sovrastruttura” o della “cultura”.

Le femministe socialiste stanno in una zona completamente diversa da ciò che io chiamo “marxismo meccanicista”. Noi (assieme a molti, molti marxisti che non sono femministi) vediamo il capitalismo come una totalità sociale e culturale. Noi comprendiamo che, nella sua ricerca di mercati, il capitalismo è costretto a penetrare ogni angolo remoto dell’esistenza sociale. Specialmente nella fase del capitalismo monopolitistico, il regno dell consumo è altrettanto importante, proprio da un punto di vista economico, del regno della produzione. Perciò non è possibile comprendere la lotta di classe come qualcosa che si limita a questioni come i salari e gli orari, confinato ad argomenti che concernono solo i luoghi di lavoro. La lotta di classe avviene in ogni luogo in cui gli interessi delle classi confliggono, e ciò include l’educazione, la saluta, l’arte, la musica etc. Noi aspiriamo a trasformare non soltanto la proprietà dei mezzi di produzione, quanto la totalità dell’esistenza sociale.

Come marxisti, giungiamo al femminismo da un punto totalmente differente dal marxismo meccanicista. Poiché vediamo il capitalismo monopolista come una totalità politica/ economica/culturale, abbiamo spazio, nella nostra cornice marxista, per temi femministi che non hanno immediatamente a che fare con la produzione o la “politica”, temi, cioè, che concernono la famiglia, la salute, la vita “privata”.

Inoltre, nella nostra versione del marxismo, non c’è una “questione femminile”, perché non rinchiudiamo le donne nella “sovrastruttura” o da qualisiasi altra parte. I marxisti di inclinazione meccanicista si pongono continuamente la questione della donna non saliarata (la casalinga): “fa davvero parte della classe lavoratrice?”, ciò significa: “produce davvero plusvalore?”. Noi diciamo: certo che le casalinghe fanno parte della classe lavoratrice – non perché abbiamo qualche complicata prova del fatto che producano effettivamente plusvalore – ma perché concepiamo una classe come composta da persone ed avente un’esistenza sociale in parte separata dal regno della produzione a dominio capitalista. Se pensiamo alla classe in questo modo, allora vediamo infatti che le donne che sembravano più periferiche – le casalinghe – costituiscono il vero cuore della propria classe: crescono i bambini, tengono insieme le famiglie, mangengono la rete culturale e sociale della comunità.

Stiamo quindi giungendo ad un genere di femminismo e di marxismo i cui interessi scorrono insieme in modo quasi naturale. Penso che ora siamo in grando di capire perché il femminismo socialista è stato tanto mistificato: l’idea del femminismo socialista è un grande mistero o un paradosso, solo fintanto che con socialismo intendiamo in realtà ciò che qui ho chiamato “marxismo meccanicista” e, nella misura in cui, con femminismo intendiamo un tipo astorico di femminismo radicale. Queste cose tra di loro non si sommano, non hanno nulla in comune.

Ma se metti insieme un altro tipo di socialismo e di femminismo, nel modo in cui ho tentato di defnirli, si giunge ad un terreno comune che è una delle cose più importanti del femminismo socialista oggi. È uno spazio – libero dalle costrizioni imposte da forme mutile di femminismo e di marxismo – in cui possiamo sviluppare il tipo di politica che si occupa della totalità politica/economica/culturale del capitalismo monopolista.

Potevamo andare avanti fino a un certo punto con le forme disponibili di femminismo e il tipo tradizionale di marxismo, poi abbiamo dovuto tirare fuori qualcosa che non fosse altrettanto restrittivo e incompleto nella sua visione del mondo. Dovevamo trovargli un nuovo nome, “femminismo socialista”, in modo da affermare la nostra determinazione a comprendere la totalità della nostra esperienza e costruire una politica che riflettesse la totalità di tale comprensione.

Comunque, non voglio lasciare la teoria femminista e socialista come uno “spazio” vuoto, un semplice terreno comune. Ci sono cose che cominciano a crescere su quel “terreno”. Oggi siamo più vicini ad una sintesi nella nostra comprensione del sesso e della classe, del capitalismo e della dominazione maschile, di quanto non lo fossimo pochi anni fa. Qui indicherò in modo solo molto schematico una tale possibile lina di pensiero:

1. La concezione marxista/femminista secondo cui la dominazione di classe e di genere riposa, in ultima analisi, sulla forza è corretta e resta una delle più devastanti critiche alla società sessista/capitalista. Ma c’è molto da dire su quel “in ultima analisi”. In un senso quotidiano, molta gente accetta supinamente la dominazione di genere e di classe senza essere tenuta in riga dalla minaccia della violenza e spesso anche senza la minaccia di una privazione materiale.

2. È molto importante, allora, comprendere che cos’è, se non la diretta applicazione della violenza, che fa andare aventi le cose. Per quanto riguarda il caso della classe, è stato scritto già molto sul perché la classe lavoratrice americana non abbia una coscienza di classe militante. Sicuramente la divisione etnica, soprattutto la divisione banchi/neri, sono momenti centrali per tentare di fornire una risposta. Ma, vorrei dire, oltre ad essere divisa, la classe lavoratrice è stata socialmente atomizzata. I distretti operai sono stati distrutti e abbandonati alla decadenza; la vita si è progressivamente privatizzata, ributtata nell’interiorità; abilità una volta possedute dalla classe lavoratrice sono state espropriate da quella capitalista; e la “cultura di massa” controllata dal capitale ha estromesso quasi tutta la cultura e le istituzioni indigene dei lavoratori. Invece della collettività e dell’indipendenza di classe, ora vige il reciproco isolamento e la dipendenza collettiva dalla classe capitalista.

3. La sottomissione delle donne, nei modi che sono caratteristici della tarda società capitalista, è stata la chiave di questo processo di atomizzazione di classe. Per metterla in un altro modo: le forze che hanno atomizzato la vita della classe lavoratrice e promosso la dipendenza culturale/materiale da quella capitalista, sono le stese forze che sono servite a perpetuare la sottomissione delle donne. Sono le donne ad essere maggiormente isolate in quella che è diventata un’esistenza familiare sempre più privatizzata (anche quando lavorano fuori casa). In molte questioni centrali, sono state le abilità delle donne (abilità produttive, curative, ostetriche) ad essere state screditate e bandite per far posto alle merci. E sono state soprattutto le donne che sono state incoraggiate ad essere totalmente passive/acritiche/dipendenti (ovvero “femminili”) a dispetto della pervasiva pentrazione capitalista della vita privata. Storicamente, la penetrazione tardo-capitalista delle vita operaia ha individuato le donne come bersagli primari della pacificazione/”femminizzazione” – perché la donna è la portatrice di cultura della classe.

4. Ne consegue che c’è una fondamentale interconnessione tra la lotta delle donne e ciò che viene tradizionalmente considerata la lotta di classe. Non tutte le lotte delle donne posseggono una spinta intrinsecamente anti-capitalista (particolarmente non quelle che cercano solo di aumentare il potere e la ricchezza di gruppi particolari di donne), ma tutte quelle che costruiscono collettività e fiducia collettiva presso le donne, sono vitali per la costruzione della coscienza di classe. Inversamente, non tutte le lotte di classe posseggono una spinta intrinsecamente anti-sessista (specialmente non quelle che aderiscono a valori patriarcali pre-industriali) ma tutte quelle che cercano di costruire l’autonomia sociale e culturale della classe lavoratrice sono necessariamente congiunte alla lotta di liberazione delle donne.

Questa, esposta in modo molto grossolano, è una direzione che l’analisi femminista socialista sta prendendo. Nessuno si aspetta l’emergere di una sintesi che farà collassare la lotta socialista e femminista rendendole una cosa sola. I brevi schizzi che ho proposto sopra mantengono la loro verità “definitivà”: ci sono aspetti cruciali del dominio capitalista (come l’oppressione razziale) che una prospettiva puramente femminista semplicemente non può prendere in considerazione o di cui non può occuparsi – ovvero, non può farlo senza subire bizzare distorsioni. Ci sono aspetti cruciali dell’oppressione di genere (come la violenza maschile all’interno della famiglia) che il pensiero socialista non può vedere – ancora, non senza stiracchiandolo e distorcendolo molto. Da qui la necessità di continuare ad essere socialiste e femministe. Ma di sintesi ce n’è abbastanza, sia in ciò che pensiamo che in ciò che facciamo, per cominciare ad avere un’identità autonoma come femministe socialiste.



This entry was posted on sabato, Gennaio 30th, 2016 at 19:10 and is filed under General. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. Both comments and pings are currently closed.