Jeanne 2 avenue des destins: intervista a Barbara X
Jeanne 2 avenue des destins: intervista a Barbara X
di Marco Reggio
Barbara X è una scrittrice. Autrice di romanzi e racconti brevi, autoproduce interamente i suoi libri. Ha pubblicato, finora: Uno in meno, Jeanne Etoile de Combat, Dystopialand, Uncuorebestiale, la raccolta Resistenze. Per poter leggere i suoi libri bisogna incontrarla per strada o a qualche mercatino, ma ci sono anche una email (kiki98@tiscali.it) e un profilo facebook (Barbara X Destini).
In occasione dell’uscita del suo ultimo romanzo, Jeanne 2 Avenue des Destins (continuazione di Jeanne Etoile de Combat, ma libro che si può leggere indipendentemente da questo), le abbiamo rivolto alcune domande.
Leggere Jeanne 2 è stato emozionante, non solo per la storia narrata, ma per il fatto in sé di incontrare nuovamente Jeanne. Che cosa ha significato per te “tornare” a lei?
Be’, l’ho incontrata nuovamente da un punto di vista letterario, di scrittura: di fatto, si tratta di un personaggio che mi accompagna da più di metà della mia vita, un personaggio di fantasia, voglio precisarlo, dal momento che più di una persona ha manifestato l’intenzione di entrare in contatto con lei sui social network… La mia è ironia fino a un certo punto: in fin dei conti anche questo è un modo per dimostrare il proprio affetto, la propria vicinanza nei confronti di un’affascinante vicenda umana. Quanto a me, è stato appena due anni e mezzo fa che ho iniziato a lavorare al seguito del primo libro che parla di Jeanne, e lo scorso 10 aprile sono riuscita a realizzarlo: ho assemblato appunti e annotazioni scritti magari tanti anni fa, ho recuperato la mia vita scassata di allora, ho richiamato alla memoria la dolce magia di certe atmosfere e, facendomi guidare dalle stesse suggestioni, sono riuscita (o siamo riuscite?…) a creare qualcosa di bello.
Direi che questo è un romanzo antifascista. Di più: antifascista militante. È una buona definizione? Si parla di un periodo in cui il neofascismo era una presenza quotidiana e minacciosa nelle strade, un periodo in cui veniva organizzandosi una controffensiva. Che cosa ci dice la vicenda di Jeanne nella Parigi degli anni ’80 rispetto a noi, qui, oggi, quando il fascismo assume forme (almeno apparentemente) diverse?
È sicuramente un romanzo in cui ho voluto rappresentare un approccio alle tematiche sociali incentrato sulla solidarietà, sui diritti: dunque, non poteva mancare l’antifascismo, come non potevano mancare altri versanti della lotta politica, in un’interconnessione di tutte le rivendicazioni che appare quest’oggi sempre più necessaria. Al tempo in cui si svolge l’azione cui fai riferimento, il nazifascismo, tramite i bonehead, i naziskin, mostrava a Parigi (ma purtroppo anche altrove) il suo vero volto e senza alcun ritegno, senza la diplomazia deteriore che talvolta notiamo ai giorni nostri. Jeanne racconta ai suoi lettori e lettrici di come in quel periodo, a Parigi, si costituirono dei gruppi di giovani militanti antifascisti che si adoperarono per arginare la piaga dei naziskin affrontandoli per le strade, lanciando alla società un messaggio di fermezza e intransigenza, l’unica via, sempre valida, per allontanare certi pericoli, a dispetto della torbida e ambigua retorica dell’essere concilianti anche verso gli oppressori, tanto di moda nei nostri tristi tempi. Più in generale, ho sempre apprezzato i precetti di Sartre riguardo all’impegno che mai dovrebbe mancare in un’opera letteraria, ma su questo punto – se me lo permetti – vorrei leggerti anche alcune righe de La certosa di Parma di Stendhal: “La politica in un’opera di letteratura è come una pistolettata in mezzo a un concerto musicale; un che di grossolano, cui pure non è possibile non badare. Ci bisognerà discorrere di brutte cose, che per molte ragioni preferiremmo tacere; ma è necessario parlar d’avvenimenti che son di nostro dominio, poiché han per teatro il cuore dei nostri personaggi”.
Oltre che scrittrice, sei un’attivista antispecista. Sei vegan e ti opponi allo sfruttamento animale. Questo aspetto emerge in modo esplicito nei tuoi testi, ed in particolare nel primo libro su Jeanne. Nel “sequel” mi sembra ancora più evidente, e inoltre compaiono gli animali: una gallina destinata al macello, un gruppo di mucche deportate, una farfalla… ma soprattutto un gatto salvato da un incidente. Si vede che la sofferenza di quest’ultimo è una metafora per le sofferenze umane (la paralisi), ma, a differenza dell’uso metaforico cui siamo abituat* – gli animali come semplice simboli di vicende umane – qui c’è forse qualcosa di più vero, di più concreto?
Al di là delle più che evidenti similitudini con la vicenda di Inés nella seconda parte del romanzo, ciò che emerge nell’episodio del gatto investito in rue Watt è la volontà da parte della protagonista di non abbandonare al proprio destino un essere vivente bisognoso di aiuto, esattamente come Inés, la ragazza trans. Jeanne ci comunica una cosa molto importante: quando siamo davanti alla sofferenza, bisogna andare… Oltre la specie. Dovrebbe essere impensabile per chiunque soccorrere qualcuno e lasciar morire nell’indifferenza qualcun altro, solo perché di un’altra specie. Ci sono occhi e cuori anche in corpi diversi da quelli umani: è soprattutto per questo che sono vegana. Da tanti anni non mi nutro delle membra di animali morti dopo atroci sofferenze (questi sono i termini da usare) perché la reputo una colossale ingiustizia perpetrata dal sistema capitalista: esso gestisce e controlla la mercificazione dei corpi (umani e non) e mira ad assoggettare gli individui a un consumo acritico, imponendo loro un subdolo condizionamento culturale. Purtroppo l’essere umano ha sempre avuto bisogno di distruggere e odiare per… progredire nel suo cammino: è un palese controsenso, ma il razzismo, le guerre, il sessismo, il fascismo, lo specismo, l’omotransfobia derivano proprio da questa contraddizione, da una competizione instaurata dal dominio, al fine di salvaguardare i propri scopi e interessi. Tornando a me, devo dirti che ultimamente non ne ho molte di occasioni per fare dell’attivismo, anche se rimango comunque una militante: la mia attività di écrivaine de rue mi assorbe quasi totalmente, sono impegnata per la mia sopravvivenza, ma del resto, facendo questo, sono consapevole del fatto che arrivo ad incontrare delle persone disposte ad ascoltarmi, a concedermi una chance, e magari a portarsi a casa uno dei miei libri.
E poi questa vicenda ricorda quella di Louise Michel, anarchica, femminista e antispecista ante litteram: “Dicono che alla barricata Perronnet, a Neuilly, sono corsa con troppa prontezza al soccorso di un gatto in pericolo. Ebbene, sì! Ma non per questo ho abbandonato il mio dovere. La povera bestia, rannicchiata in un angolo battuto dalle granate, chiamava come un essere umano. In fede mia, sì, sono andata a cercare il gatto, ma ci ho messo meno di un minuto; l’ho messo al sicuro, là dove bastava un passo. È stato addirittura raccolto”. Solo che qui, forse, le barricate sono l’intera vita di Jeanne…
Esatto. E poi Jeanne è una donna che ha vissuto l’esperienza umana della transizione di genere: a partire dalla sua giovinezza e da questo particolare momento, ha constatato che gli sguardi che la gente perbene le rivolgeva (soprattutto nell’arco della sua carriera artistica) erano quelli che vengono abitualmente rivolti ad ogni soggetto che non si uniformi ai dettami imposti dalle strutture del dominio. Il nucleo accentratore di questo come dell’altro romanzo a lei dedicato è il racconto del cammino di Jeanne la quale, attraverso i suoi occhi e il suo cuore, ci rende partecipi di tutta una serie di esperienze strettamente collegata alla volontà di lottare per un mondo più giusto. Le lotte e la militanza hanno origine anche dalla consapevolezza della considerazione che ha di te il mondo esterno. Capita anche a me, sai? A volte, quando chiedo a qualcuno se per caso desidera dare un’occhiata ai miei libri, mi par di leggere nel suo sguardo e nella sua mimica facciale queste parole: “Una persona così che scrive libri?… Chissà che cazzate saranno”. Intendiamoci, non ho mai affermato che la mia prosa è paragonabile a quella di un Manzoni, anzi, sono a conoscenza dei miei limiti, ma al di là di questo, tanta gente fatica a prendermi in considerazione come scrittrice perché non ha gli strumenti (buonsenso, conoscenza) per approcciarsi a me, per abbozzare un incontro o una semplice conversazione con una donna che ha vissuto la mia esperienza umana.
A proposito di intersezioni, c’è un episodio in cui una compagna di lotte di Jeanne sta portando del cibo a dei sans-papiers che occupano un cantiere per protesta. Si vede porgere insistentemente della carne da parte di un compagno antirazzista; è vegetariana, e risponde con durezza a questa (inconsapevole?) provocazione. Hai messo in scena la vegefobia degli ambienti politicizzati, con la loro difficoltà a comprendere l’intersezione fra dominio sugli animali e dominio sui/le migranti (o su altri soggetti), e d’altra parte la frustrazione di chi prova a mettersi dalla parte di ogni oppress*, senza lasciare indietro nessuno. Si tratta di una scena che hai in qualche modo vissuto, nella tua esperienza di attivismo “su più fronti”?
No. O almeno non direttamente. Ma sono purtroppo ancora molte le situazioni in cui, negli ambienti antagonisti, domina incontrastata la volontà di non considerare questo e altri versanti della lotta per i diritti. Ed è poi la stessa ragione per cui, tanto per fare un esempio, un gran numero di persone con cui condivido momenti di lotta, pur essendo realmente solidale con gay, lesbiche, trans, sa poco o nulla riguardo ad orientamento sessuale e identità di genere, riguardo all’abc, come dico io: e paradossalmente questa è una lacuna che alle volte si palesa anche all’interno dello stesso popolo arcobaleno, fra i più giovani, soprattutto. Molte cose sono cambiate rispetto al passato, questo è vero, e tutti i giorni vi sono iniziative e circostanze che sarebbero state giudicate impensabili fino a pochi anni fa. Rimane tuttavia necessario unificare le forze, stabilire intersezioni fra le battaglie per i diritti, oggi più che mai, dal momento che attraversiamo un periodo storico in cui chi sta al di là delle barricate sta lavorando per far compiere innumerevoli passi indietro alla coscienza del tessuto sociale, inimicandogli tutte quelle realtà che faticosamente cercano di resistere all’oppressione. Chi manovra i fili di questo sistema repressivo e mercantil-spettacolare ha capito che è con la tecnologia che si possono tenere in scacco intere società, e quando si dice che le macchine e i dispositivi tecnologici stanno via via sostituendo l’essere umano, soprattutto in ambito lavorativo, ci si dimentica troppo spesso che in quello sociale stanno pericolosamente manipolandone il cervello, la coscienza.
Un altro episodio toccante è quello di una migrante che, costretta a prostituirsi per passare il confine, si trova a condividere un camion con alcune mucche dirette al macello. Sono femmine di un’altra specie, come lei sfruttate: in questa donna “scatta” qualcosa. La percezione dell’oppressione delle donne può aiutare a comprendere quella degli animali (e viceversa)? E quella della condizione delle donne transessuali, in particolare?
Purtroppo il più delle volte certe cose non vengono considerate nell’unica maniera in cui dovrebbero essere considerate. Nell’episodio di Danika, la ragazza bosniaca che valica clandestinamente la frontiera francese (siamo alla fine del 1993, e gli accordi di Schengen, in Francia, sono entrati in vigore nel marzo del 1995), ho voluto rappresentare l’angoscia di chi, in catene, deve patire pene d’inferno. Oggettivamente, prendendo la scena del rimorchio con a bordo Danika e le mucche, differenze non ce ne sono in termini di sofferenza: l’unica differenza per molti umani la fa purtroppo la specie, ed è – questa – una differenza, una linea di demarcazione che la stragrande maggioranza degli esseri umani vuole caparbiamente continuare a difendere, poiché l’unica in grado di eliminare sensi di colpa e pensieri scomodi, rinsaldando quella supremazia nei confronti dei più deboli da cui trae linfa il capitalismo, il quale esige che i suoi sudditi vedano il maiale – un essere vivente che, al pari di un umano, gioisce per una carezza – solo come salsiccia, prosciutto, e la trans solo come un pupazzo da discoteca con cui sfogare le proprie morbosità represse (ma in un angolo nascosto, e che non lo sappia nessuno!). Personalmente, mi sono servita di questo parallelismo per mettere in luce la scarsità di considerazione nei confronti di chi viene definito debole, diverso-a, per rappresentare il destino comune di esseri viventi condannati allo sfruttamento, all’orrore. Le discriminazioni sono il frutto amaro di una civiltà che è stata creata per favorire il potere, non lo scopro certo io. Leggi, divieti, imposizioni, statistiche: sono elementi indispensabili al fine di controllare i più deboli, che vengono puniti con la violenza e la repressione non appena manifestano la volontà di ribellarsi.
Riguardo ai/le trans, ti ho sentito dire spesso – e infatti lo ribadisce anche Jeanne nel romanzo – che l’ignoranza sul tema in sé, sul processo di transizione in tutti i suoi aspetti (medico, giuridico, emotivo, politico, ecc.), è la forma principale di discriminazione, e che si tratta di un’ignoranza intenzionalmente ricercata. In che senso questa ignoranza è violenza?
Interessarsi di certe cose, esserne troppo informati, fa ricchione: è di questo che molte persone (soprattutto maschi) hanno paura. C’è un forte disagio, alla base, il timore che informarsi di certe tematiche possa in qualche modo scalfire il totem della virilità. Il mondo esterno, inoltre, lanciando tutti i giorni messaggi di carattere sessista e omotransfobico non fa che alimentare questo atteggiamento. Alle volte, per porvi blandamente rimedio, taluni si adoperano per esprimere la propria solidarietà nei confronti della persona trans: ma in concreto non c’è nulla, sono gli stessi che poi si vergognano a farsi vedere in sua compagnia, e questa è per l’appunto la riprova della loro personalissima idea di solidarietà, una solidarietà rivolta all’infelice da compatire (e da tenere a distanza). Tale ignoranza, che è – più o meno inconsciamente – intenzionalmente ricercata, non può che generare violenza, dal momento che contribuisce a lasciare nel vago e nell’indefinibile delle vite: quando un essere vivente è un oggetto misterioso è più facile negargli diritti, quando la presunta diversità di una persona trans – per effetto dei crudeli sguardi esterni – si sovrappone tristemente alle sue aspirazioni, alla sua sensibilità, ai suoi pensieri e ai moti del suo cuore, significa relegare questa stessa persona in un ghetto di oblio, tenebre e lacrime. Ecco la ragione per cui sapere, informarsi e far proprie certe nozioni di base con l’ausilio di una rinnovata sensibilità è sempre ciò che fa la differenza, la differenza positiva, quella che sola consente a una società di lasciarsi alle spalle retaggi, superstizioni, odio, discriminazioni, oscurantismo.
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