La gattara e lo stigma sulla cura – di Gabriele Lenzi

gattare

 

Fonte: Resistenza Femminista

La gattara e lo stigma sulla cura

di Gabriele Lenzi

Attraverso i media, viene rinforzato lo stigma sulla “gattara”, una figura portatrice di un’etica della cura della relazione su cui si riversano i più disparati aspetti dell’odio misogino e specista. Credo che uno sguardo maschile su questo tema sia particolarmente utile: in fondo, ciò di cui voglio parlare sono alcuni degli stereotipi e dei pregiudizi con cui ogni giorno si cerca di colonizzare in particolare l’immaginario e le azioni degli uomini.

(Questo intervento è stato pensato per Vegan Days Livorno 2014. È bello incrociare luoghi dove diverse lotte sociali, diverse istanze etiche vogliono confrontarsi e mischiarsi. Un piccolo passo ancora, per una città spesso inospitale, nella direzione degli elementi positivi che citavo, un paio di anni fa, qui.)

Nel 2013 in Italia, su Real Time TV, inizia la serie Io e la mia ossessione, apparsa originariamente negli USA con il titolo My Strange Addiction a partire dal 2010. La serie ha un taglio documentaristico (ma ha suscitato perplessità sulla veridicità di alcuni episodi), e approfondisce in ogni puntata una o due storie individuali, concentrandosi su alcuni comportamenti dei protagonisti descrivibili come ossessivo-compulsivi che possano risultare per il grande pubblico particolarmente bizzarri o disgustosi. In questa spettacolarizzazione del disagio, non stupisce che appaiano, in forma estremizzata, stilemi narrativi già appartenenti all’immaginario comune (per esempio, l’uomo innamorato della sua auto, o la donna ossessionata dal trucco). Il format però sembrerebbe soprattutto alla ricerca programmatica di qualcosa che spiazzi continuamente lo spettatore, di talmente strano da risultare, ogni volta, impensabile (come nell’episodio dell’uomo che mangia il vetro, o in quello della donna che mangia i cuscini). Trovo dunque interessante che nella serie emerga uno schema che, oltre a esprimere un noto stereotipo, si ripete persino più volte, come se fosse considerato meritevole di essere esplorato in quanti più aspetti possibile. Su 5 serie finora, 41 episodi totali, 77 casi presentati, 3 casi riguardano il legame donne-gatti-follia.

Mary vive sola con tre gatti e non riesce a smettere di mangiare il loro cibo. “Mi alzo, preparo un caffè e poi comincio a mangiare croccantini quasi per tutto il giorno. Preparo anche pranzo e cena per mio marito e i miei figli, ma io mangio solo croccantini per gatti”. Lisa è invece dipendente dal pelo di gatto: ne mastica e mangia i ciuffi che trova per casa (“dicendo che somigliano a dello zucchero filato”) per sentirsi più vicina ai suoi gatti e, nel caso del suo ultimo arrivato, ne lecca il manto come farebbe la mamma gatta. “L’animale non può più farlo dopo una malattia, e Lisa ama coccolarlo così. La preoccupazione dei familiari è tangibile, la sorella di Lisa le chiede di consultare il medico.”

Ma è il primo di questi tre episodi incentrati su ossessioni femminili rivolte ai gatti che introduce la più tipica figura della “gattara” (la “cat lady” in inglese). Oggi, in Italia, il termine “gattara” è diffuso anche semplicemente per autodefinirsi o per definire le appassionate di gatti in generale (Anna Mannucci, nel bellissimo articolo La donna dei gatti, sostiene che ciò sia successo dopo la legge 281 sul randagismo, che regolamenta la funzione di questa figura e in qualche misura la riscatta). Ma nel suo uso più letterale, la parola (di chiara origine romanesca, la cui diffusione in Italia sembra ricevere una limitata concorrenza soltanto da “gattaia” nell’area di influenza di Firenze) si riferisce alla donna che, spontaneamente ma con costanza e impegno, nutre e più in generale si prende cura di gatti liberi nei contesti urbani. Si tratta di una figura tipica, che è difficile cogliere nella sua essenza e nelle sue sfaccettature visti tutti gli stereotipi negativi di cui viene generalmente caricata. Un elemento centrale della caratterizzazione stereotipata è quello della follia. Io e la mia ossessione infatti non intende raccontare una forma di cura, empatia o responsabilità: è un’ossessione, ci dice il format. Debbie, “da quando suo marito è morto”, e nonostante ne sia allergica, ha portato a casa molti gatti e ne accoglie al momento delle riprese circa venti. Questo fatto la porta all’isolamento sociale, visto il suo incarnare la figura stigmatizzata della “crazy cat lady”, la “gattara pazza”.

Il riscatto della figura della gattara di cui parla Mannucci è senz’altro una realtà, ma molto di nicchia: riguarda principalmente l’ambiente del volontariato animalista e dell’attivismo antispecista e le donne interessate per motivi personali e politici a una rivendicazione di categorie femminili marginali. Non ha però scalfito i pregiudizi diffusi tra i più, che hanno una valenza internazionale. Gli esempi citati in questo testo sono infatti indifferentemente italiani o statunitensi (o sono tradotti tra questi due contesti, come nelle trasmissioni televisive citate): almeno al livello di riflessione che mi interessa affrontare, sembrano amalgamarsi e rispondersi perfettamente.

Se una donna si occupa troppo di animali, è una pazza, come abbiamo visto. Il che rimanda a uno degli stereotipi misogini più forti: quello dell’isteria. Ma c’è un identikit molto più preciso di una donna che si occupa troppo di animali. L’enciclopedia parodica Nonciclopedia, spesso prontissima a caricare il suo umorismo di sessismo, ci offre una definizione che sintetizza bene tutto lo stigma sociale presente su questa figura: “La gattara è solitamente una vecchiaccia acida e spennacchiata che tenta di colmare un tracimante istinto materno irrisolto amando e curando i gatti”. Una sintesi perfetta di alcuni dei maggiori luoghi comuni della misoginia: lo stigma della vecchiaia femminile, con un implicito disprezzo per l’aspetto fisico (“vecchiaccia”), l’“acidità” femminile che caratterizzerebbe le varie età della donna (prima smorfiosa, poi mestruata, infine sessualmente frustrata), l’incubo maschile della trascuratezza fisica che si somma alla bruttezza e/o alla vecchiaia in un aspetto da strega, la spaventosa capacità/volontà di generare (“tracimante istinto materno”), elemento femminile la cui negazione diviene subito motivo di derisione (“irrisolto”). E poi lo scandalo del rapporto intimo con questa inaccettabile prole animale.

La figura della gattara è talmente prototipica nello stigma patriarcale sul femminile che, così come “femminuccia”, “frocio”, “trans”, “donnicciola” eccetera, diventa un’offesa presunta infamante rivolta agli uomini. In una disputa su Youtube tra fan di musicisti metal, una band (percepita evidentemente dal commentatore come di “veri maschi”) è preferita all’altra con questi argomenti: “fanculo i saxon, sembrano quelle donnette che vendono draghi di ceramica e con tanti gatti!”. Come riportavo anche in un articolo speculare a questo intervento, sui “gattari”, anche a me è stato detto che facevo volontariato con gli animali “come quelle vecchiette che si inteneriscono per i mici”.

In questo caso l’accusa è soprattutto quella del sentimentalismo. Su cui viene appiattito, è bene chiarirlo, ogni moto emotivo, ogni impulso che non sia immediatamente riconducibile – secondo una dicotomia radicata – a pura ragione. Non è un caso che due dei primi grandi teorici antispecisti, due uomini, Tom Regan e Peter Singer, abbiano cercato in modo molto esplicito di dissociarsi non tanto dalle accuse di “sentimentalismo”, smontanone i presupposti, ma invece, facendo proprio lo stesso punto di vista, dall’emotività in sé (si veda l’articolo di Josephine Donovan Diritti animali e teoria femminista). A questo proposito, è illuminante la storia di un video su Youtube divenuto virale nel 2011. Una ragazza di nome Cara Hartman, in una ripresa amatoriale, aveva interpretato una immaginaria Debbie (ispirandosi forse all’episodio di My Strange Addiction, precedente di pochi mesi), caricatura di una ragazza naif che, videoregistrandosi per un ipotetico sito di appuntamenti, si bloccava nel dichiarare il suo amore per i gatti, scoppiando a piangere e scusandosi di non riuscire a proseguire perché stava pensando ai gatti, che avrebbe voluto abbracciare tutti i gatti, e così via. In un’intervista, Cara Hartman racconta di avere sempre fatto video scherzosi per gli amici e, in questo caso, mentre stava spegnendo il computer: “la frase ‘voglio abbracciare ogni gatto ma non posso perché è una cosa folle, non posso abbracciare ogni gatto’ mi è passata in mente e ho pensato che dovevo fare un video mentre la dicevo così da non dimenticarmela”. Il video ha avuto 28 milioni di viste, anche grazie al fatto che moltissime persone hanno pensato che fosse reale – provocando si può immaginare quali reazioni sarcastiche, offensive e violente. Ma incarnare lo stigma, in questo caso quello del “folle sentimentalismo femminile per gli animali”, specialmente per poi volerne uscire, non è mai sicuro: “Non potevo credere che la gente pensasse che era vero né quanto li ha fatti arrabbiare quando si sono resi conto che era falso. Credo di aver bloccato più di 200 persone su Twitter, Facebook e Youtube a causa delle minacce di morte e dei disgustosi commenti sessuali. È abbastanza divertente ma anche molto inquietante”.

Tutto questo odio misogino verso la gattara deriva però anche dall’incarnare alcuni elementi di indipendenza femminile. La gattara infatti, forse prima di ogni altra cosa, viene vista come una figura solitaria. In realtà, come racconta bene Anna Mannucci, il punto non è l’essere sola, ma lo svolgere quell’attività al di fuori o perfino di nascosto dalle proprie relazioni famigliari. Ma questo le riversa addosso le offese che riguardano le donne che, in qualsiasi forma, non sono sotto la giurisdizione di un uomo: “la mancanza della mazza”, “la masturbazione”, “la cessitudine”, il fatto di essere “femmine e senza uomo”, “prive di peni” sono le illuminanti risposte di vari utenti a una domanda postata da un utente di Yahoo Answers che recita: “Quale relazione unisce la zitella, la femminista e la donna coi gatti (o gattara)?”.

La gattara tocca dunque un nucleo dello spettro del femminile nell’immaginario patriarcale: la relazione, in due sue facce. Da un lato la capacità di solitudine, letta come autonomia femminile (che rimanda alla figura della femminista). Dall’altro, viceversa, la relazione di cura, la cura della relazione: la gattara dimostra una pratica di empatia che non a caso viene rappresentata – e lo diventa a volte nella realtà per motivi pratici insormontabili – come al limite del perdersi. Agnese Pignataro vede nella “gattara” e nel “genitore amorevole”, in quanto “persone, di qualunque sesso, liberamente impegnate in una cura quotidiana, attenta e rispettosa, di soggetti vulnerabili con bisogni e linguaggi molto diversi dai propri”, due immagini preannunciatrici dell’etica della cura (cfr. Carol Gilligan), “spesso erroneamente interpretata come un elogio della tradizionale abnegazione femminile. In realtà, la parola inglese care racchiude significati più complessi: non solo prendersi cura di qualcuno, ma anche ‘curarsene’, ovvero avere a cuore l’altro, dare importanza alla sua esistenza, al suo punto di vista, alle sue emozioni”.

Nello stereotipo negativo della gattara, infatti, la cura dei gatti non rimanda affatto a un materno rassicurante (addomesticato, per così dire, pur con tutto il suo perturbante dell’“enigma” della differenza femminile). L’autonomia femminile che rappresenta nega invece il dominio del maschio; l’etica della cura che incarna sfida la dissociazione maschile. L’insieme rimanda ulteriormente al femminismo come sorellanza, incubo nell’incubo. L’alleanza solidale con gli animali, poi (e possono essere gatti ma anche piccioni, cani, gabbiani…) non può che rendere il tutto decisamente spettrale. Quello che la retorica patriarcale coglie, la sfida della gattara al potere maschile, è espresso in modo molto suggestivo in questa lettura antropologica di Anna Mannucci: “I gatti, nella loro pluralità e generalità, per la gattara non sembrano essere sostituti del figlio, della maternità, ma, semmai, delle figure paragonabili al ‘bambino della notte’ di cui parla la psicoanalista Silvia Vegetti Finzi, il figlio fantastico e fantasticato, senza padre né Padre, con tutto quello che ciò può significare, figli che non hanno bisogno di un padre e che non vengono iscritti nelle regole né nelle genealogie maschili”.

Anche per altre caratteristiche, quali la marginalità sociale, la frequentazione delle periferie, il rapporto con i residui di natura nelle nostre città, la gattara sembrerebbe nell’Occidente contemporaneo quanto di più simile si possa trovare alla strega dell’età moderna. Mentre la prima è stata abbondantemente adottata dall’immaginario femminista, la seconda più sporadicamente, ma una riflessione su questa figura è in crescita. E per una Emma Baeri ad esempio che rivendica il termine descrivendosi “femminista e gattara”, dall’altra parte c’è ancora la forza dello stigma diffuso, per cui, secondo Nonciclopedia, una figura come Virginia Woolf sarebbe “la prova che anche la gattara pazza in fondo alla via può entrare nella storia della letteratura”. A volte viene percepito lo stigma sulla femminista ma non quello analogo sulla gattara, che invece viene impugnato: “Per chi crede che una donna femminista sia una gattara ripugnante e che odia gli uomini” (Alfemminile).

Nell’immaginario patriarcale, la relazione tra la gattara e la femminista è solidissima: la gattara è vista a volte come l’evoluzione – forse sperata, percepita tuttosommato come più innocua – della femminista. Su un forum di videogiochi, un utente commenta così un articolo di taglio femminista sul tema della depilazione: “il darwinismo si applica anche alle femministe. gli esemplari piú deboli che non riescono a stare dietro nemmeno al loro corpo non riusciranno a riprodursi diventando delle gattare isteriche”. Nel 2011, quando emersero alcune polemiche per una campagna del PD che ricorreva a stereotipi sessisti, il blog 7yearwinter si inventò dei cartelloni parodici, due dei quali ironizzavano su quello che, secondo l’autore, il “femminismo moralista” avrebbe voluto: una donna in gonna lunga e… una gattara. La blogger Arianna Ascione – pur senza criticare lo stereotipo della gattara – si interroga sulle conseguenze di questo binomio così sentito: “Ecco l’immagine a cui pensano in molti appena sentono la parola ‘femminista’. Rappresentata in modo eccelso dalla gattara dei Simpson: zitella, acida, avanti con gli anni, con i capelli grigi e selvaggi, ‘bruciareggiseni dei centri sociali’….insomma, fondamentalmente racchia e anche un po’ tocca. Per questo molte Donne hanno una paura tremenda ad usare quel termine in riferimento a se stesse, e di conseguenza non amano autodefinirsi femministe.”

In effetti, la gattara dei Simpson (The Crazy Cat Lady nell’originale, apparsa per la prima volta nell’aprile 1998) non si limita ad incarnare lo stereotipo della “donna di mezza età, depressa cronica e senza amici” (descrizione della gattara protagonista del videogioco The Cat Lady). Eleanor Abernathy – questo il suo nome – a 8 anni voleva diventare un medico e un avvocato perché credeva che una donna può diventare tutto quello che vuole se solo si mette in testa di farlo. È la caricatura di una femminista. Possiamo immaginarci quanto sia necessario reprimere, narrativamente, una figura del genere: a 24 anni ha le due lauree desiderate, una a Yale e una a Harvard, ma a 32 ha un crollo nervoso, diviene alcolista e trova sollievo solo nel suo gattino. Dopo 8 anni è diventata la “signora pazza dei gatti” (la storia è rivelata in un episodio del 2007, il nome in uno del 2005).

Nel fare dello stereotipo della gattara un’evoluzione della femminista, la prima sembra soprattutto (in quanto pazza, isolata) la speranza della sconfitta dell’autonomia e della forza della seconda. Ma sarebbe così rassicurante, questo percorso, se della gattara restasse intatta l’etica della cura, il senso di responsabilità, l’empatia, che come abbiamo visto rappresentano altrettanto una sfida al patriarcato? Nei Simpson, Eleanor Abernathy maltratta continuamente i suoi gatti: li ha sempre appesi, spaventati, addosso, li lancia continuamente e li maltratta in molti altri modi. Eleanor Abernathy non è la gattara che sa prendersi cura dei gatti. La sua pazzia non è dovuta al preferire i gatti agli esseri umani, ma è la negazione della capacità relazionale e anche dell’empatia per gli animali. È il contrario della gattara, eppure come gattara è rappresentata. Nei media è favorita tipicamente questa confusione. La “gattara”, ormai indistinguibile dalla “gattara pazza”, prevede un copione in cui gli animali possono sì intenerirla, possono essere sì difesi da lei – si veda la gattara in cui si imbattono i protagonisti di Jeepers Creepers, film horror statunitense del 2001 – ma questo ancora non ci dice se in realtà non sia in atto un maltrattamento, come accade nel caso della gattara dei Simpson.

Lo stereotipo mediatico, infatti, non prevede la gattara in contatto con gatti liberi, come accade nella realtà, ma – indipendentemente dalla motivazione e dalle condizioni in cui ciò accade – come una donna che li porta nella sua casa o in altra proprietà. Trattandosi di uno stereotipo negativo, esso non è certo motivato dal parziale riscatto della gattara esposto all’inizio: non si tratta insomma di un ibrido “neutro” tra la gattara di strada e la semplice appassionata di gatti. La sua funzione – ovvero il senso della sua diffusione – sembra piuttosto, da un lato, quella di annullare un aspetto importantissimo della gattara tipica: la sua autonomia anche dalla proprietà (sia dei gatti sia del territorio in cui si svolge il loro contatto). In particolare, le gattare, come racconta Mannucci, sono donne di ogni tipo di estrazione, ma in questa varietà ne esistono di certo anche di particolarmente “non addomesticate”, persone ai margini della società, che dimostrano in questa attività una agency che esce da qualunque forma di finalizzazione socialmente incentivata e che si svolge in questi casi in un altrove totale, luogo della relazione tra individui – umani e non – particolarmente slegati dalla proprietà. Lo stereotipo annulla tutto questo e rende il fenomeno innocuamente stigmatizzabile. Dall’altro lato, questo elemento sembra creare un ulteriore cortocircuito stigmatizzante, non solo tra gattara e femminista, ma tra queste due e un’altra figura: quello della persona che accumula, nella sua casa o in altre aree private e delimitate, grandi quantità di oggetti o a volte animali (il fenomeno del cosiddetto hoarding) (*).

Nel 2013 ha inizio, ancora su Real Time, un’altra serie TV: Sepolti in casa – animali (in originale: Confessions: Animal Hoarding). Si tratta di uno spin-off di una serie precedente (Sepolti in casa, in originale: Hoarding: Buried Alive) che, con uno spirito simile a Io e la mia ossessione, analizza l’accumulo compulsivo di oggetti (in inglese “hoarding”, appunto). La nuova serie si concentra sull’accumulo compulsivo di animali di vario tipo. Al di là del dibattito sulla delimitabilità e definizione di questa tipologia di comportamento, esiste purtroppo una casistica ampia di persone che raccolgono grandi quantità di animali in luoghi chiusi o delimitati senza che siano soddisfatti i loro bisogni basilari, in modalità e gradi diversi: gabbie, sporcizia, sovraffollamento, malattie, scarsità di cibo, eccetera. In genere queste persone negano tali condizioni.

La serie Sepolti in casa – animali presenta alcuni casi di chiaro e grave maltrattamento (“sono i miei bambini” dice una donna che tiene circa 80 cani in condizioni di evidente disagio), altri in cui gli animali sembrano vivere in condizioni più accettabili. Come nel caso di Vera che, con difficoltà, grazie all’intervento della figlia, accetta che 36 dei 74 gatti tenuti in una vasta area recintata (tutti negativi ai test di malattie infettive fatti dal veterinario) fossero gestiti, in cerca di adozioni, da un’associazione animalista. “Ti stanno facendo disinteressare a te stessa”, le dice la figlia. Di certo non vengono mai approfondite le condizioni precedenti di tutti questi animali. Ad esempio, di una donna (“con 5 figli e 21 gatti”) viene riportato il fatto che sente un impulso di dare rifugio a un animale, che “non sa dire di no”. Ma che cosa ha motivato, in ogni singolo caso, la decisione di portarli in quelle proprietà? abbandoni? difficoltà evidenti? o semplice volontà di accumulo da parte di queste persone? Non è chiaro. In alcuni casi si esplicita la volontà di aumentare anche con le nascite la popolazione: Shelley (la storia si concentra su di lei nonostante sia un’attività portata avanti in coppia, con il compagno che si impegna nel rimpiazzare gli oggetti che i gatti rompono o nel creare un ambiente a loro congeniale) tiene decine di gatti in casa, e parla del piacere di essere ogni volta come una mamma quando nasce una cucciolata. In altri casi invece sembra più evidente il caso di una persona che aiutava animali in difficoltà, a cui per vari motivi è sfuggita di mano la situazione.

L’assenza di approfondimento e viceversa il ricorso allo stereotipo negativo della gattara si fanno particolarmente evidenti nel caso di Mary K. Mary ha 28 gatti. “Se vedo un gatto che ha bisogno di qualcosa, io… cerco semplicemente di prendermi cura di lui”. Una dichiarazione che sarebbe da accogliere ed approfondire, e invece è solo il primo passo di un caso da esplorare in senso psichiatrizzante. Ma la spiegazione in realtà è rapida, sicura e non emergono dubbi se sia per caso troppo “preconfezionata”: “sua figlia è morta sei anni fa di cancro”, “lei cerca di stabilire con i suoi gatti una relazione madre-figlia”, “il fatto di sua figlia c’entra molto con tutto questo” eccetera. Una spiegazione della attività di Mary potrebbe trovarsi semplicemente nella libertà da impegni anche dei figli maschi ormai adulti (uno lavora in Alaska e uno in Iraq), visto che, in generale, una gattara può iniziare a dedicare tempo a questa passione nel momento che altri impegni glielo consentano. Ma la strada presa è un’altra. Il caso è particolarmente grave: le amiche e la sorella dicono che è estremamente depressa e che parla della possibilità di suicidarsi. Vogliono “indietro” la loro Mary, dicono, ma la struttura narrativa della puntata sembra focalizzarsi stranamente sui gatti come se fossero la causa (sono loro che l’hanno strappata alla società?). “È estremamente depressa, ma non vuole lasciare gli animali” dice in lacrime un’amica. La sua attività di “gattara” (nella versione accettabile dallo stereotipo mediatico: nelle mura domestiche) sembra centrale in questo suo stato depressivo, non una cosa semplicemente concomitante (e che al limite, può a sua volta essere resa difficoltosa dallo stato depressivo) né tantomeno un’ancora di resistenza, interpretazione che, nonostante le difficoltà dimostrate (“Controllare i gatti è semplicemente impossibile”, dice Mary), potrebbe avere un valore se non fosse intesa nel senso schematico suddetto della compensazione inopportuna, fittizia, indice insomma di assenza di equilibrio mentale. La relazione tra la depressione e la morte della figlia è ovviamente del tutto plausibile, ma la centralità dei gatti in questa faccenda è del tutto pretestuosa. Intanto, però, aiuta a demonizzare la situazione: una donna, depressa e quindi in qualche modo “folle”, sarebbe alienata a causa della sua intensa attività di gattara dai suoi affetti, portata via in una spirale di sofferenza dilagante. In un’altra puntata, il caso di Ray – uomo, vedovo, con molti cani – è narrato diversamente. I cani non sembrano responsabili della sua situazione. Eppure la situazione è apparentemente molto più grave, almeno dal punto di vista igienico generale e della salute e sicurezza degli animali. “I gatti le fanno pipì addosso”, sembra essere il culmine narrativo di questa che non è più soltanto una spettacolarizzazione del disagio di Mary, ma una lettura precisa dei fatti. “Quegli animali hanno bisogno di essere salvati almeno quanto lei” chiude un’amica, la cui voce serve forse a non mettere eccessiva enfasi in questa demonizzazione. In fondo i gatti non sono il vero target: non sono nemici, ma solo degli inopportuni ospiti inconcepibili. Servono solo a far diventare Mary una “gattara pazza”.

È chiaro che la serie intende appiattire gran parte della casistica presentata su uno stereotipo che sintetizza gattara e “accumulatrice compulsiva”. Questo è particolarmente pericoloso. La casistica dell’hoarding è reale, diffusa e gravissima. Il fenomeno avrebbe bisogno di approfondimenti seri. Ma avrebbero bisogno, senza ipocrisie, di essere trattati anche la realtà dell’animalismo, dell’antispecismo (in tutte le loro sfaccetature), del volontariato, delle condizioni del randagismo nei contesti urbani, dei piaceri ma anche delle difficoltà della responsabilità verso gli animali, anche “domestici”.

In presenza di uno stereotipo diffuso che esprime il punto di vista misogino (e antifemminista) sulla figura della gattara, è facile attribuirle le situazioni raccontate dagli stereotipi mediatici. In assenza di una trattazione della realtà variegata delle gattare, la donna che nutre decine o magari poche centinaia, divise in varie colonie, di gatti liberi verrà vista come un’accumulatrice, visto che, tra le altre cose, non sembra mai degna di considerazione la distinzione fondamentale tra gatti chiusi in una proprietà vs gatti liberi. Ma anche nel caso dei gatti in una proprietà è necessario capire la situazione di questi animali, la volontà di risolvere una condizione temporanea o invece la conseguenza di aggravarla, le condizioni che hanno portato alla elevata quantità.

D’altra parte è proprio dalla responsabilità, dall’empatia per gli animali che possono nascere situazioni difficili. Io, che vivo con due gatti ormai da 10 anni, so che comportano una serie di obblighi e impongono delle scelte nell’organizzazione della vita. Un mio amico che ha cambiato casa qualche anno fa è stato scelto dai gatti liberi della zona come punto di riferimento. Adesso dipendono da lui per il cibo e questo ha molte conseguenze sull’organizzazione della sua vita. Ho sentito testimonianze analoghe di persone per le quali, nell’affrontare varie difficoltà, la responsabilità e gli obblighi verso alcuni cani non portano certo sollievo, al di là delle soddisfazioni relazionali che possono nascerne. Una gattara che segue molte colonie è praticamente costretta – a meno di non vederli morire davanti a sé – a portare a casa, più o meno temporaneamente, alcuni animali: cuccioli, feriti, non accettati dalla colonia, abbandonati da terzi che conoscono la sua attività, eccetera. Esiste insomma anche la buona fede che sfugge di mano perché chi si occupa di prevenzione del randagismo, o cura degli animali liberi, a qualsiasi livello, è spesso in una situazione d’emergenza. Sempre cercando di distinguere le motivazioni dell’hoarding che nasce come mero accumulo, disinteressato alle condizioni degli animali, anche una situazione di cura può degenerare e inserirsi in una spirale di depressione e ingestibilità.

Gli esempi mediatici analizzati vanno invece esattamente nella direzione opposta: lo stigma e la confusione. Quanto questi siano ben accolti, abbiano una funzione di rinforzo a una struttura sociale esistente, lo si vede purtroppo dall’eco mediatica che hanno avuto. Non si tratta solo di quelle trasmissioni, ma delle copie estemporanee (come una puntata delle Iene) e della incredibile quantità di articoli sulla stampa e sul web, improvvisamente, sugli accumulatori, apparsi nei mesi successivi, sempre senza una parola sulle realtà del randagismo, sulla legge sulla prevenzione, sul volontariato, sulle persone che si prendono cura spontaneamente degli animali che vivono nelle città, come le gattare appunto. Il rischio è che certe persone che vorrebbero visibilità per far conoscere i loro problemi in conseguenza di questo radicamento di uno stereotipo mediatico si zittiscano proprio per paura di essere considerate persone pazze e adesso anche criminali. Paradossalmente: specie nei casi più gravi, cioè più bisognosi, casi di situazioni sfuggite di mano.

Un’arma retorica da contrastare, che contemporaneamente: alimenta lo stigma sul femminile, attraverso la retorica negativa della follia, dell’isolamento, della vecchiaia, della bruttezza, della funzione materna negata, del sentimentalismo eccetera. Più in particolare, riesce talvolta a screditare specificamente la figura della femminista; demonizza la figura della gattara, riconfermando tutto l’armamentario di stereotipi negativi dedicati ed esorcizzando la sua – per il patriarcato – inquietante propensione, equilibrata o difficoltosa che sia, all’empatia e alla cura; sminuisce il fatto esterno che muove la gattara, e cioè rende invisibili le molte situazioni difficili, di pericolo costante o di disagio estremo, del randagismo e più in generale di molti animali urbani.

(*) l’elemento della proprietà privata (che ho poi approfondito riguardo allo stereotipo mediatico) nel cosiddetto hoarding è stato sottolineato da Michela Angelini nella discussione seguente l’intervento al Vegan Days.



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