Hungry Hearts: l’atavica fame del cuore – di Emilio Maggio

hungry-heartsHungry Hearts: l’atavica fame del cuore

di Emilio Maggio

Il nuovo film di Saverio Costanzo, Hungry hearts, pare aver calamitato orizzontalmente le attenzioni della mediasfera italiana. Dalle pagine web a quelle della stampa (comprensiva di riviste di settore), dal giornalismo griffato all’intrattenimento informativo, alle tavole rotonde sui cosiddetti casi eclatanti bandite per stimolare l’attenzione del pubblico televisivo sempre più orientato a farsi garante di un senso della giustizia che oscilla in maniera inquietante dall’assoluzione alla condanna, quello che emerge è un coacervo di banalità, luoghi comuni e letture affrettate e superficiali anche da parte di coloro che si sono giustamente sentiti chiamare in causa (mi riferisco ovviamente al vegetarismo e alle sue implicazioni con la questione etica che esso solleva di fatto).

Il film in questione, pur banalizzando pericolosamente la scelta etica che un sempre più cospicuo numero di individui abbraccia per contestare l’egemonia consumista dell’animale e non partecipare così al banchetto allestito dalle governance mondiali per promuovere lo spettacolo della carne e pur raggiungendo picchi di inusitata vegefobia , credo vada ascritto totalmente a quel tipo di narrazioni attraverso cui l’infoitainment contemporaneo tende a criminalizzare tutte quelle soggettività difficilmente addomesticabili, viste e interpretate come un retaggio della radicalità che aveva contraddistinto l’antagonismo dei movimenti libertari e di liberazione degli anni ’70 in Italia e in cui la donna giocava un ruolo fondamentale. La donna, declinata in alcune patologie ricorrenti, è diventato il mostro da sbattere sulle prime pagine dei giornali e su quelle dei palinsesti televisivi, insieme e contemporaneamente al fantasma che calamita attualmente le peggiori idiosincrasie identitarie: il musulmano.

Hungry hearts è interamente costruito sull’interpolazione tra il maschile come simulacro del potere raziocinante della macchinazione teologico-politica che include la donna solo in quanto soggetto funzionale alla riproducibilità del nucleo familiare e soprattutto in quanto soggetto garante della sanezza e robustezza psico-fisica da trasmettere alla eventuale progenie e il femminile come potenziale perturbante sovvertitore dell’ordine patriarcale. Questo conflitto latente esplode quando la donna decide autonomamente di farsi carico della funzionalità che la connota come persona, cioè come soggetto in grado di relazionarsi con il resto della società, assolvendo così il compito di moglie e madre che gli è stato assegnato fin dalla nascita.

Mina, la protagonista femminile interpretata da Alba Rohrwacher, da non figlia quale è (orfana della madre e senza mai aver avuto una vera relazione con il padre con cui non ha più contatti) rappresenta l’ideale del femminino senza radici, creatura atavica in quanto figlia non generata e destinata a de-generare qualunque tipo di affettività. E’ per questo che il regista sposta prudentemente l’azione in un contesto che sia poco o niente rappresentativo dei vizi privati e delle pubbliche virtù del Belpaese. New York, e Brooklyn in particolare, sono la perfetta scenografia per inscenare il dramma dell’amore ai tempi della crisi . Questa scelta fa sì che il film venga percepito come un apologo sulla precarietà delle famiglie giovani, prive ormai di quei punti di riferimento, morali e materiali , che assicuravano la stabilità, almeno apparente, di quelle delle generazioni precedenti. Jude, rampollo di una di queste famiglie di discendenti del puritanesimo americano, incontra Mina, si innamora, la mette incinta e la sposa, recidendo così il patto filiale che lo vincolava ad una madre gelosa e possessiva. Il prologo del film riassume piuttosto bene l’impianto che fonda le aspettative del giovane Jude: liberarsi dalla madre castratrice e convolare a giuste nozze con quella che diventerà la madre dei propri figli e che lo libererà dal sacro vincolo oppressivo genitoriale, per poi poter ricreare le dinamiche di potere una volta incarnate da suo padre, ormai passato a miglior vita. Ma questi, inconsapevole di essere incappato nelle grinfie dell’ ulteriore versione della donna mostro sciroccata, quella vegana, non immagina certo cosa lo aspetta. Mina, allettata dalle previsioni astrologiche di una fattucchiera della Brooklyn più lungimirante, si convince che colui che porta in grembo è il bambino indaco, una specie di nuovo messia in grado di rivoluzionare il destino di un’umanità ormai completamente fagocitata dal consumismo e soggiogata dalle regole che stabiliscono la normale convivenza civile. Il bambino speciale, una volta nato, viene subito sottoposto ad una ferrea dieta di legumi, polpa di avocado e succhi di frutta. Niente omogeneizzati o derivati della carne, nulla. Il medico allopatico diagnostica che il bambino non cresce sufficientemente, non pesa quanto basta, mentre quello alternativo alla sintomatologia della medicina ufficiale, che non è riuscito neanche a far partorire Mina in acqua secondo i dettami della nascita naturale stabiliti dalla filosofia New Age, tranquillizza il padre, sempre più vittima dell’ansia, con un assennato elogio della convivenza eco-sostenibile.

Se ne ripercorriamo i momenti topici si percepisce come il film alimenti un senso di crescente disagio nello spettatore, provocato dalla metamorfosi mostruosa di Mina in entità che minaccia la pace familiare.

L’escamotage dell’equivoco che innesca l’incontro e il destino dei due protagonisti, ambientato nel bagno di un ristorante giapponese dove loro malgrado rimangono sequestrati, pone la prima dicotomia della futura coppia: il corpo del maschio che espleta le sue funzioni (nel caso quella di evacuare il cibo spazzatura della cucina orientale) e quello astrale della femmina, corrotto dal fetore delle feci. Alla dimensione scatologica del prologo si somma la pulsione procreatrice di Jude che eiacula nel sesso di Mina, piuttosto contrariata, in uno degli approcci sessuali pre-matrimoniali . L’improvviso matrimonio dei due, conseguente alla gravidanza di Mina, viene celebrato a suon di Tu sì ‘na cosa grande, cantata da Jude in onore alla nazionalità della novella sposa. La notte del matrimonio Mina ha la prima visione, un cervo ucciso da un cacciatore proprio davanti al ristorante di Coney Island dove si è svolta la festa nuziale. La merda di Jude funge da transfert per l’aura chiaroveggente di Mina. Dalla scatologia alla escatologia.

Il nascituro, e secondo le pre-visioni nuovo Gesù , cresce così tra le brame della madre che considera il bambino la sua personale creatura, e il montante disagio del padre sempre più escluso dall’ esasperato amore materno della donna per il proprio figlio. Jude, non potendo esercitare il mandato di padre, inizia a percepire la moglie come estranea all’equilibrio conforme della famiglia e pericolosa per la stessa salute psico-fisica del figlio. Quando si rivolge al pediatra confessando il loro status di coppia vegetariana viene corretto dal medico che stabilisce come il loro modo di alimentarsi e quello imposto al figlio corrisponda alla dieta vegana, spiegando, per gli spettatori che non fossero abbastanza eruditi sull’argomento, quale sia la differenza.

A questo punto il film di Costanzo cambia decisamente registro e sposa l’horror metafisico. La Mina vagante esplode in tutta la sua follia e, come spettatori, cominciamo a diffidare della sua speciale maternità. La donna dimagrisce inesorabilmente, passa intere giornate vegliando la propria creatura, cura l’orto pensile che ha costruito in totale autarchia, trascura il marito stigmatizzandone le preoccupazioni. Per dare risalto alla folle corsa verso la tragedia annunciata il regista ricorre ad alcune delle soluzioni più stereotipate del genere, come le focali spinte, l’uso del grandangolo che deforma il corpo di Mina rendendola ancora più inquietante, il dilazionare il tempo delle azioni negli interni casalinghi . Questi espedienti servono a creare il giusto climax di claustrofobia domestica che lo spettatore mette subito il relazione con la terrificante Madonna con bambino. Il turbamento rabbioso che la matriarca Mina provoca in Jude, e di riflesso nello spettatore, e che comporta lo smarrimento del ruolo del padre e la perdita di significato della famiglia eterosessuale, rende evidente come la ragione del film vada ricercata nella demonizzazione della donna-madre trasformata in Mater Suspiriorum, Mater Tenebrarum e Mater Lacrimarum, la triade di streghe malvagie in grado di cambiare le sorti del mondo e proprio per questo maggiormente temibili. Questa improvvisa immersione nella dimensione del terrore sovrannaturale (ricordiamo i presupposti profetici e messianici del bambino indaco) permette a Costanzo di giocare la carta della paura, citando un’altra storia di orrore domestico cinematografico, Rosemary’s baby.[1] Ma mentre nel film di Polanski l’orrore veniva da fuori, era cioè esterno all’appartamento ed era una diretta emanazione del più gretto senso comune dei buoni cittadini appartenenti alla parte sana della società che si coalizzava mostruosamente contro la vittima designata dei tempi, la donna che andava emancipandosi dai modelli tradizionali, nel film di Costanzo succede esattamente il contrario. Il male viene da dentro: non dalla società e dall’imposizione delle sue regole di buona convivenza civile che uniformano e omologano qualsiasi tipo di relazione, bensì dalla parte malata che alberga in ognuno di noi, soprattutto quando quel noi, stavolta declinato al femminile, è stato irrimediabilmente corrotto da certe ideologie che hanno prodotto effetti devastanti sul quieto, razionale e virile vivere civile.

Ricordo che Costanzo si era già messo in luce con il precedente In memoria di me[2] girato interamente in un collegio gesuita per seminaristi dell’isola della Giudecca. A conferma di come l’autore abbia una particolare predilezione per contesti chiusi al genere femminile. Non si tratta tanto della sua presunta misoginia ( la misoginia riflette pur sempre un disagio, per quanto accettabile o meno), quanto, ripeto, di un’operazione ascrivibile alla criminalizzazione della donna estremista, alla stregua delle mamme infanticide che quotidianamente scandiscono le nostre cronache giornalistiche, dal caso di Cogne a quello recente di Santa Croce Camerina.

La tragica fine annunciata del film in cui la madre del protagonista, sostituendosi alle istituzioni latitanti e impotenti di fronte al sacro vincolo matrilineare, uccide la nuora con un fucile da caccia, avalla , se ancora ce ne fosse bisogno la tesi del bando dell’autarchia femminile e la riproposizione della rappresentazione del vincolo familiare come rivendicazione del mistero della Paternità da sostituire al mistero della Maternità raffigurato dalla scomoda figura della Madonna, turbatrice del rapporto “…rigidamente maschile, tra padre e figlio, o maestro e allievo….”.[3] Una volta debellata la natura matrigna della generatio in carne, rappresentata dalla madre e dalla moglie di Jude, e sostituita con la generatio in spiritu che alimenta l’identificazione del Padre con il Figlio, si potrà ricostituire il dispositivo teologico-politico della successione del potere del maschio da tramandare. Come per “In memoria di me”, le sorti dell’umanità dipendono dal travaglio del maschio, che, come unico titolare del raziocinio teleologico, potrà generare il corpo mistico del figlio e conseguentemente quello burocratico della comunità politica dei credenti. Insieme, mano per la mano, passeggiando sul lungomare di Coney Island, Jude e suo figlio diventano”…una persona sola secondo la funzione del diritto,…l’individuo che finisce per coincidere con l’intera specie umana”.[4]

Santa, puttana, femminista, terrorista, Mater Terribilis, Vergine Maria, Vegana. Tremate, tremate le streghe son tornate.

 


 

NOTE

[1] Roman Polanski, Rosemary’s baby, Usa 1968.

[2] In memoria di me, di S.Costanzo, Italia 2007.

[3] Roberto Esposito, Due, Einaudi, Torino 2013, p.55.

[4] Ibidem, p.60.



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