L’invisibilizzazione che legittima il sessismo – di Michela Angelini

Testo presentato alla seconda edizione di Liberazione Gener-ale, svoltasi a Verona il 24 maggio 2014.

Gli altri contributi presentati e discussi durante la giornata possono essere scaricati dal blog del Collettivo Anguane


 

L’invisibilizzazione che legittima il sessismo

di Michela Angelini *

sexism

Il sesso, da sempre, viene usato come pretesto per legittimare la superiorità dell’uomo sulla donna: il maschio, per natura forte e irascibile domina famiglia, clan, stato. La femmina, per natura votata alla maternità, è relegata all’accudimento della famiglia e a ruoli che richiedano una certa empatia e propensione alla cura, come l’infermiera o la maestra.

Cosa divide i maschi dalle femmine? I diversi genitali? Il diverso sistema ormonale? Le differenze cromosomiche? Oppure è solo una costruzione sociale per dividere l’umanità in oppressi ed oppressori? Per giustificare situazioni di palese disuguaglianza tra uomini e donne, da secoli, si ricorre alla scusa del naturale destino biologico.

Il genere, termine che vorrebbe distogliere l’attenzione dal sesso per puntarla sulle differenze culturali, sociali e psicologiche tra persone, purtroppo, è stato fatto coincidere con il sesso e viene usato come suo sinonimo, snaturando l’intento iniziale di esprimere diversi modi di essere e vivere tipici del singolo individuo.

L’educazione genderista è quotidiana. Libri scolastici, spot pubblicitari, giochi divisi per genere, insegnano ai bambini che ci si divide in adulti maschi impegnati, lavoratori, agitati e distanti dai figli e nelle femmine dominate da crisi emotive, sempre attente alla propria estetica e dedite alla pulizia della casa, alla preparazione dei pasti e alla cura della famiglia. Fin da bambini si viene sottoposti ad un processo di genderizzazione che non prende minimamente in considerazione l’identità di genere, quell’anima che ognuno di noi ha dentro, che attinge caratteristiche tanto dall’universo maschile quanto da quello femminile, rendendo l’espressione di ogni soggetto unica e non divisibile in gabbie divise per genere.

L’identità di genere, il cui diritto è garantito solo dalla legge Argentina, non ha libera espressione all’interno della nostra società dove, infatti, dev’essere adattata al genere, per rientrare nell’unica espressione performativa permessa: quella di uomo per un maschio o quella di donna per una femmina. Qualsiasi comportamento non conforme alle possibilità di genere sarà prontamente punito. Un bambino maschio che, ad esempio, desiderasse una bambola in regalo, sarà subito oggetto di scherno dai famigliari, prima, e dal gruppo dei pari, poi.

Ci hanno anche insegnato che il genitore coincide con un ruolo stereotipato chiamato “madre” o “padre”, quindi automaticamente che la genitorialità omosessuale e transessuale siano inaccettabili. Chi mette a conoscenza i propri famigliari della condizione transessuale o omosessuale sicuramente stravolge le aspettative e mette in crisi il ruolo stereotipato di partner e genitore dati per assodati. Può non essere facile accettare una tale novità in famiglia (ovviamente la coppia in caso di cambio di preferenza sessuale si scoppia, ma questo non è detto succeda se il partner cambia sesso) e l’unico modo per tenere assieme i propri cari è rimettere al centro del discorso il tema della consapevolezza di sé e degli affetti. Dev’essere messo da parte il conformismo per rivalutare cosa significa essere uomini e donne e cosa significa la parola amare. Tutto questo si traduce in un rafforzare quel rapporto genitore – figlio creando maggiore condivisione, trasparenza e discussione. Da quel momento il genitore non sarà più il ruolo genitoriale che la società impone ma un genitore impegnato a svolgere al meglio la propria funzione genitoriale al di là di qualsiasi stereotipo imposto. Immaginiamo un figlio di un padre omosessuale riaccompagnato con un uomo dello stesso sesso. Come sarebbe il nuovo spot barilla? Ci sarebbero due persone indistinguibili con i criteri sessisti che cucinano, puliscono casa, fanno la spesa e vanno a lavorare. Il nucleo famigliare funzionerebbe, nonostante la mancanza di ruolo fondamentale stereotipicamente chiamato “donna”[1]. Poi ci sono altre famiglie rainbow, nate dall’unione di due persone omosessuali, che hanno un bambino con procreazione assistita od adozione. In questo caso il figlio avrà due mamme o due papà, che per la società bene è ancora peggio del caso precedente. Anche in questo caso l’essere diversi da una cosiddetta famiglia tradizionale impone di fondare il rapporto genitori – figli sulla sincerità e sulla condivisione. Quando hai due mamme o due papà è impossibile stereotipare i ruoli famigliari. Anche in questo caso la famiglia avrà solide basi per essere luogo di elaborazione e crescita responsabile. Poi c’è, ovviamente, il rovescio della medaglia. L’educazione che la società ci impartisce crea menti sessiste, omotransfobiche, che non sono abituate ad immaginarsi parte della società non conforme e a confrontarsi con essa. Questo può determinare un rifiuto, per preconcetto, di chi si dichiari omosessuale o transessuale in famiglia o nella sfera allargata degli affetti. Una società che vedesse convivere famiglie eterogenitoriali con famiglie omogenitoriali, mono genitoriali e famiglie allargate su quali basi fonderebbe il sessismo? Se i bambini fossero abituati fin dall’asilo a conoscere figli delle sopracitate categorie e se non esistesse alcun pregiudizio verso esse, come potrebbe essere la famiglia primo luogo dove si viene educati al sessismo? Se fin da piccoli fosse chiaro che ci si innamora di persone, e non di qualcuno dell’altro sesso, se il principe azzurro fosse gay, se i bambini potessero giocare con i pentolini e le bambine con castelli pieni di mostri, come dovrebbero cambiare gli spot pubblicitari per vendere ancora i loro prodotti?

Il binarismo sessuale è principio organizzatore della società e la paura del potenziale sovversivo insito in ogni persona transessuale ed omosessuale è troppo forte per non essere visto come minaccia per la “normalità”.

Usando le parole di Mario Mieli “Nelle donne soggette al «potere» maschile, nei proletari soggetti allo sfruttamento capitalistico, nella soggezione degli omosessuali alla Norma e in quella dei neri al razzismo dei bianchi, si riconoscono i soggetti storici concreti in grado di ribaltare i piani odierni della dialettica sociale, sessuale e razziale, per il conseguimento del regno della libertà”. E ancora “le checche e i travestiti sono i “maschi” che, per quanto «maschi», comprendono meglio cosa significhi essere donne in questa società, dove gli uomini più disprezzati non sono gli autentici bruti, i fallocrati, i violenti, i presuntuosi individualisti, bensì quelli che maggiormente assomigliano alle donne”[2]. È ancora così, oggi o, con le dovute accortezze, si può essere parte di quella massa uniforme e acritica che alimenta il sistema invece di contrastarlo?

Alle persone transessuali è consentito rientrare nella norma rendendo il loro corpo confondibile con un corpo natio di quel sesso e alle persone omosessuali di vivere tranquillamente ad ogni livello sociale nascondendo il proprio orientamento sessuale o come va di moda dire nella società bene “non ostentando la propria omosessualità”. Troppo disdicevole un bacio in pubblico, un tenersi per mano, un volersi sposare se questo arriva da due persone dello stesso sesso e per il mai passato di moda “i panni sporchi si lavano in casa”, si può essere “sporchi” gay nel privato, se non si vogliono conseguenze non desiderate nel vivere il mondo pubblico. Non si ha diritto ad avere un’identità legale femminile se non si è prima proceduto ad un’eliminazione dei genitali maschili. Non si può mettere in crisi la società sessista, preferendo l’essere sé stessi invece di adattarsi alla comune morale.

L’invisibilizzazione dei fenomeni transessuale e intersessuale non è un’invenzione moderna. Come avveniva per le donne, nel medioevo, le persone intersex[3] e transgender (ma anche omosessuali) venivano messe al rogo. Il diverso veniva zittito eliminandolo fisicamente. Oggi, attraverso chirurgie estetiche e trattamenti ormonali, anche attuati su bambini neonati, nel caso degli intersessuali identificabili alla nascita, si spinge alla conformità il diverso per renderlo confondibile con un maschio o con una femmina e non mettere, così, in crisi il binarismo. Il diverso viene zittito rendendolo uguale agli eguali.

La disforia di genere, il forte e persistente identificarsi nel sesso opposto a quello assegnato anagraficamente alla nascita è, ad oggi, classificata come patologia psichiatrica. Chi vuole cambiare genere (trans-gender) dovrà passare sotto le grinfie di uno psichiatra che, oltre a dichiarare l’assenza di patologie psichiatriche, scriverà nero su bianco la diagnosi.

Con tale relazione sarà possibile assumere ormoni per modificare il proprio corpo ma, in caso si voglia modificarne l’anatomia mediante interventi chirurgici, non esistendo alcun diritto all’autodeterminazione del corpo, sarà necessaria una sentenza da parte di un tribunale, pagato dalla persona trans, che autorizzi il chirurgo a procedere.

Anche se la maggior parte delle persone trans desidera modificare chirurgicamente il proprio sesso, chi non vuole o non può ancora sottoporsi a tale intervento, è costretto dalla legge 164/82 e sue interpretazioni, a vivere con i documenti emessi alla nascita. Lo stato aiuta, così facendo, le persone transfobiche ad identificare i e le transessuali come diversi ogni qualvolta sia necessario mostrare un documento: ufficio di collocamento, lavoro, posta, farmacie, controlli delle forze dell’ordine, stipula di un contratto d’affitto, iscrizione alla palestra o quando si richiede la tessera per la raccolta punti al supermercato.

L’inevitabile stigma conseguente a tale situazione porta, spesso, all’esclusione o all’autoesclusione da ambienti lavorativi, politici e sociali, destino in comune con gran parte delle donne che, agli occhi di un ipotetico datore di lavoro, sono a rischio gravidanza. Dovendo, per destino biologico, essere madre e moglie, al pari di una persona trans che, per destino biologico, dovrebbe vivere nei panni imposti dalla società, donne e persone transessuali vengono sempre relegati a ruoli di minor importanza e a rimpinguare l’esercito dei disoccupati.

Non va meglio se analizziamo la situazione transessuale. I media proiettano l’immagine della donna trans non operata come unica opzione di transessualità, accostandola costantemente ad ambienti trasgressivi e al limite della legalità, rendendo agli occhi del pubblico la categoria “transessuali” formata da sole persone poco raccomandabili e poco affidabili.

Regolarmente un uomo transessuale (percorso da donna a uomo) viene appellato al femminile e una donna transessuale (percorso da uomo a donna) viene appellata al maschile, tanto dai media, quanto dalla gente comune, finché i documenti non verranno rettificati. La comune morale vuol dare più importanza al documento di identità che all’identità di genere che ognuno di noi esprime con aspetto, comportamento e ruolo sociale. Il bilancio di tale situazione è che il 50% delle persone transgender, secondo uno studio svedese, ha pensato al suicidio e il 21% ha provato almeno una volta a togliersi la vita.

Sesso, genere e destino biologico vengono imposti alla nascita. Come una persona intersessuale può mettere in crisi la legittimazione della divisione maschi femmine in base al sesso, le persone transessuali possono mettere in crisi il sistema uomo donna basato sulle differenze di genere e le coppie omogenitoriali potrebbero minare la rigida divisione dei sessi voluta da questa società fortemente eteronormata.

In Italia è molto attiva la fabbrica di corpi normali, intenta ad agire su corpi di neonati intersex o di persone transgender per dare caratteristiche stabili e normalizzate. Non interessa se quel neonato intersex, cresciuto, si sentirà più uomo o più donna e non è previsto posto comodo in società per chi non vuol rientrare nel binario maschio – femmina. Di contro, è previsto lo scioglimento del matrimonio di quella persona transessuale che ottiene la rettifica dei documenti, diventerebbe un matrimonio omosessuale.

Chi non vuole o non può ancora cambiare il proprio sesso genitale o chi, nonostante la transizione mantenga caratteri non totalmente riferibili al genere scelto, resta sì soggetto in grado di sovvertire la dialettica sociale ma paga questo con l’assenza di tutele e con l’emarginazione.

Quale sarebbe lo scenario se venisse garantito il diritto all’espressione dell’identità di genere, come avviene in Argentina[4], fosse vietato agire chirurgicamente sui genitali dei neonati finché non possono scegliere quale corpo desiderano, come avviene in Colombia[5], fosse introdotto il pronome neutro “Hen”, come in Svezia e fossero autorizzate adozioni, procreazione assistita e gravidanza surrogata tanto per coppie eteroaffettive, omoaffettive e single?

Chi è oppresso e chi è oppressore davanti a corpi, legalmente riconosciuti e protetti, non maschi e non femmina e performance e ruoli, né puramente da uomo né puramente da donna? Chi deve stare a casa a lavare piatti e ad accudire i bambini se la coppia è formata da persone dello stesso sesso? Chi dovrà impegnarsi per far carriera e sostentare la famiglia?

Se si potesse migrare di genere senza dover essere sottopost* a perizie psichiatriche, se i ruoli genitoriali non fossero più divisi in madre e padre ma unificati sotto la parola “genitore”, se l’uomo avesse la possibilità di accudire i figli neonati e la donna, neomamma, potesse lavorare e continuare a far carriera, se i bambini fossero educati in modo neutro e senza ricorrere continuamente a stereotipi di genere, cosa succederebbe alla nostra società?

In una società senza pressione genderista, in cui tutti possono incarnare l’espressione di genere che sentono propria, in cui tutti possono essere genitore, quanti finirebbero fuori da quelle gabbie imposte dal sistema? Se ognuno potesse esprimere il proprio potenziale senza doversi continuamente confrontare con le categorie uomo – maschio – patriarca e donna – femmina – madre, su quali presupposti si reggerebbero il sessismo per essere ancora legittimato?


NOTE

* Attivista lgbtqi e vegana, componente del Collettivo Anguane (http://anguane.noblogs.org/).

[1]      “Non farei mai uno spot con una famiglia omosessuale, non per mancanza di rispetto ma perché non la penso come loro, la nostra è una famiglia classica dove la donna ha un ruolo fondamentale” (dichiarazione di Guido Barilla a La Zanzara, 26/09/2013).

[2]      Mario Mieli, Elementi di critica omosessuale, Einaudi, Torino 1977.

[3]      È intersessuale chi nasce con caratteristiche sessuali (genitali, ormonali o cromosomiche) non conformi al sesso maschile o femminile. Tale diversità, a volte, è evidente con la sola osservazione dei genitali esterni, altre si evidenzia solo con un accurato esame cromosomico. È transgender chi, pur nato/a con caratteri sessuali conformi al sesso maschile o al femminile, si riconosce nel genere opposto o in un genere altro.

[4]      http://www.tgeu.org/Argentina_Gender_Identity_Law.

[5]      http://www.isna.org/node/181.



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One Response to “L’invisibilizzazione che legittima il sessismo – di Michela Angelini”

  1. Conte

    per riconoscere i diritti di coppie gay,per l’adozione ai single e in generale per riconoscere i diritti delle persone lgbt e della minoranza intersex non c’è nessun bisogno di pronomi neutri. Nè c’è bisogno di negare l’esistenza delle mascolinità e le femminilità che non sono recite ma sono tante quanti sono gli uomini e le donne del mondo con i loro modi di essere diversi, e possono essere vissute in tanti modi, frequenti o meno frequenti statisticamente ma sempre legittimi