Canto di odore e di musica – di Serena Contardi
Canto di odore e di musica
di Serena Contardi
Fonte: “A – rivista anarchica”, n. 392, ottobre 2014
«They haven’t got no noses/ they haven’t got no noses/ and Goodness only knowses/ the noseleness of Man!», cantilenava al colmo del divertimento (e della pietà) il cane Quoodle ne L’osteria volante di G. K. Chesterton (nella traduzione di Primo Levi: «Non hanno proprio naso/ non hanno proprio naso/ e Dio solo sa quanto/ sia disnasato l’Uomo»).
La vista umana, suggeriscono Massimo Filippi ed Emilio Maggio nella densa raccolta di saggi Penne e Pellicole (Mimesis, Milano, 2014, pp. 220, € 18,00), ha qualcosa di imperioso: risponde all’urgenza di oggettivare l’altro e conservare la (presunta) identità del sé, trasformandosi così nello «sguardo onnipotente, continuo e instancabile di una rappresentazione ingabbiante». E soffocando il senso dell’odorato. Nell’odorare ci si perde, per questo l’Umano ne ha così paura. Tanto da averne fatto, scrivevano Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’illuminismo, «un’onta, uno stigma di classi sociali subalterne, di razze inferiori e animali ignobili». Eppure tutti noi emettiamo involontari segnali olfattivi, testimonianza inaggirabile del fatto che non ci apparteniamo mai del tutto, che non esiste un nostro proprio, che il limite tra interiore ed esteriore non può negare porosità e aperture per sostenersi. Che siamo animali tra gli animali.
Abbandonando l’occhio fagocitante del voyeur che caratterizza tutte quelle prospettive fintamente animaliste che insistono nel tracciare improbabili confini tra “noi” e “loro” (forse per ricavare nuove umanissime emozioni da quelle penne e da quei manti), i due autori danno puntualmente ragione del perché, esattamente come nel caso di Joy, il cavallo protagonista del colossal spielberghiano War Horse a cui è dedicato un capitolo del libro, l’Animale «è sempre e comunque fuori campo, anche se continuamente inquadrato dall’obiettivo della macchina da presa». L’Animale è fuori campo ogni volta che lo si osservi con sguardo disponente, o si pretenda di imbrigliarlo – magari animati dalle migliori intenzioni – entro le coordinate di un pensiero fondazionalista, ennesima variante della volontà di dominio rivestita dei panni linguistici cari alla filosofia analitica.
Gli animali che percorrono queste pagine non conoscono pretesa né furia.
Di qui il loro vivo interesse per la letteratura e per il cinema, e più in generale per il linguaggio inteso nella sua funzione espressiva più che rigidamente denotativa, se il linguaggio può diventare la chiave per una concezione non più assimilante del pensiero. Cominciano finalmente ad abbozzarsi i tratti di quella «lingua minore» che sola possa restituirci agli animali che dunque siamo, «una lingua altra, una voce dell’altro mondo, al contempo universale e corporea, una lingua che tutti conoscono, parlano e comprendono, ma che prende forma e consistenza solo nella vicinanza, nel contatto e nella carezza. Lingua dell’incontro e del commiato, lingua tattile».
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