Cartografie post – umane: dalla crisi dell’umanesimo alla zoopolitica – di E. Botteghi

lib gen 2Testo presentato alla seconda edizione di Liberazione Gener-ale, svoltasi a Verona il 24 maggio 2014.

Gli altri contributi presentati e discussi durante la giornata possono essere scaricati dal blog del Collettivo Anguane.

 

Cartografie post – umane: dalla crisi dell’umanesimo alla zoopolitica

 

di Egon Botteghi*

 

Durante la giornata di studio politico LiberAzione Gener-ale 2 svoltasi il 24 Maggio 2014 a Verona, ho voluto parlare di un libro che non parla specificatamente di antispecismo, ma che parla all’antispecismo e la ragione per cui un* antispecista potrebbe avere voglia di ascoltarlo, è che da all’antispecismo uno strumento in più, e cioè una mappa, una cartografia dell’ambiente e del tempo in cui agisce.

Questo libro, Il postumano, la vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte, scritto da Rosi Braidotti, uscito nel 2014 per le edizioni DeriveApprodi, è un libro di filosofia e la filosofia è una delle cosiddette “scienze umane”.

Per l’autrice, uno dei compiti delle scienze umane del XXI secolo, all’epoca del postumano, è proprio quello di tracciare delle cartografie, e una cartografia è da lei definita “una lettura teoreticamente fondata e politicamente radicata nel presente” importantissime dal punto di vista dell’antispecismo critico e politico perché “disvelano le collocazioni del potere che strutturano la nostra posizione di soggetti”.

Quindi ci possono aiutare a cogliere le strutture di potere che agiscono dentro ed intorno a noi, ci rendono consapevoli della nostra collocazione sia in termini di spazio (dimensione geopolitica o ecologica) che di tempo (dimensione storica e genealogica).

Questo evidenzia la struttura situata, quindi dipendente, di ognuno di noi e della teoria critica, e pertanto anche dell’antispecismo e ne limita le pretese assolute di sapere.

Queste qualifiche sono cruciali per sostenere la critica sia dell’universalismo che dell’individualismo liberale.

È, detto in maniera molto più raffinata, quello che io sostenevo quando dicevo che se gli antispecisti nostrani, specialmente maschi, non si rendono edotti dell’origine situata dell’antispecismo (bianco ed occidentale), rischiano di fallire il suo portato politico di liberazione generale.

Rosi Braidotti è una filosofa, femminista, nata in Italia ma emigrata in giovane età in Australia e poi approdata alla Sorbona di Parigi, dove ha conosciuto Foucault, Barthes, Simone De Beauvoir, Lucy Irigay e sopratutto Gilles Deleuze. Si definisce una filosofa materialista-vitalista spinoziana.

Nel 1988 ottiene la prestigiosa cattedra, prima in Europa, di Women’s Studies a Utrecht, dove tutt’ora insegna ed è sposata, in Olanda, con la compagna Anneke Smilik, anch’ella docente universitaria.

Interessante notare come, anche solo con la sua biografia, l’autrice mandi in crisi i dispositivi del riconoscimento dei diritti all’interno degli stati nazionali: è infatti sposata con la sua compagna fintanto che non varca i confini dov’è nata, l’Italia, stato che ancora non riconosce alcun tipo di unione tra le persone dello stesso sesso.

Parlando di mappe e di cartografie, che rimandano al segno tracciato sulla carta, al paesaggio, alla “visività”, non ho potuto fare a meno di parlare di questo libro accompagnandomi con delle immagini, alcune tratte dallo stesso testo di cui parlo, corredate da una spiegazione quanto più breve e discorsiva possibile.

Ove non dichiarato espressamente, tutte le citazioni presenti, sono tratte dal libro in questione.

La prima immagine, quella che Braidotti ascrive come immagine simbolo della cultura umanista, è la celeberrima immagine dell’Uomo vitruviano, un disegno a matita e inchiostro su carta (34×24 cm) di Leonardo Da Vinci, databile al 1490 circa.

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Secondo l’autrice questo disegno, conosciuto in tutto il mondo, è l’incarnazione dell’essenzialismo umanistico, che ha assunto una conformazione particolare dell’essere umano, un accidente, un caso, a regola universale, a metro di giudizio per tutt* gli esseri umani, che devono essere come lui per essere degni, per incarnare quella perfezione corporea di bello e buono, di mens sana in corpore sano, di derivazione classica.

Parliamo proprio di “lui” di maschio, bianco, occidentale, “sano”, nel pieno vigore dell’età.

“Quest’immagine è il simbolo della dottrina dell’Umanesimo, con la fede nel potere unico, autoregolatore e intrinsecamente e specificatamente morale della ragione umana, portatrice di progresso.

L’umanesimo ha sviluppato anche un’idea di civilizzazione che pone l’Europa come centro del potere della ragione autoriflessiva e del progresso di miglioramento della natura umana, quindi è eurocentrico.

Eurocentrismo, maschilismo e antropocentrismo sono da analizzare come fenomeni complessi e correlati”.

Complessità diventa una parola chiave e rappresenta anche le ragioni dell’importanza della lettura di un libro come questo: chi affronta i problemi legati al dominio e all’oppressione e si impegna per una conseguente lotta per la liberazione deve saper vedere la complessità delle situazioni e rendersi conto che non ci sono soluzione facili, univoche o panacee a tutti i mali

“Se il potere è complesso, diffuso e produttivo, così deve essere la nostra resistenza ad esso”.

Di primaria importanza per far funzionare un dispositivo universalista come quello della cultura umanista, che nello stesso momento in cui pone l’uomo al centro dell’universo decide anche come deve essere quest’uomo per essere degno di una tale posizione, è la nozione di differenza intesa in senso peggiorativo.

“La perfezione si definisce anche e sopratutto in base a quello che non è.

Come hanno visto le femministe, l’Uomo ha bisogno della donna per definirsi: l’uomo è quello che non è donna.

Così l’umano si definisce in cosa non è animale.

Quando la parola “differenza” significa “inferiore”, questo ha esiti letali per le persone individuate come “altre””.

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Essi sono gli altri sessualizzati, razzializzati e naturalizzati, ridotti allo stato non umano di corpi usa e getta

Cominciamo così un viaggio attraverso vari “paesaggi” e passaggi che hanno portato alla messa in discussione di questo ideale umano monolitico e calato dall’alto, come una gabbia per la nostra intera specie, una gabbia di contenzione, sofferenza, sfruttamento e morte per tutt* i diversi, “cartografie” disegnate da pensator* critic* e movimenti di liberazione. L’autrice ci presenta per primi i pensatori radicali del ’68, presso cui ella stessa si è formata, che furono definiti postrutturalisti e buttarono giù dal piedistallo l’ideale di perfezione dell’uomo vitruviano, facendone opera di decostruzione.

 

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Si scoprì che quest’uomo, lontano dall’essere il canone di proporzione perfette, sebbene avesse raggiunto lo status di legge naturale, era in realtà un “costrutto storico” e quindi, come tale, “contingente” e “variabile” rispetto a valori e luoghi.

Le femministe hanno invece evidenziato che il presunto ideale astratto dell’uomo, simbolo dell’umanesimo classico, è in realtà il vero e proprio maschio della specie: è un lui.

Inoltre è bianco, europeo, bello e normodotato e, aggiungerei, eterosessuale e possidente.

L’umano dell’umanesimo, quindi, non è un ideale, né una statica media obiettiva.

Esso è piuttosto un modello sistematizzato di identità grazie al quale tutti gli altri possono essere valutati, normati ed assegnati a una definitiva posizione sociale (ma che si basa anche su queste alterità per “individuarsi”, in un gioco di specchi altamente deformante).

L’antiumanesimo prende infatti le distanze dallo schema di pensiero dialettico, dove l’alterità aveva la funzione di tracciare i confini con l’altro sessualizzato (le donne), l’altro razzializzato (i nativi) l’altro naturalizzato (gli animali). Questi altri erano costituiti nella misura in cui funzionavano come specchi in grado di confermare la posizione suprema del medesimo.

Questa economia politica della differenza ha portato alla svalutazione di intere categorie di essere umani, considerati inferiori e dunque alla stregua di corpi utilizzabili: essere differente significava essere meno di.

La norma definitoria del soggetto veniva posizionata al culmine della scala gerarchica il cui premio consisteva nella stessa assenza di differenze.

L’umano è quindi una convenzione normativa con un elevato potere regolamentare e quindi funzionale alle pratiche di esclusione e discriminazione.

Una delle conseguenze di questa svalutazione strutturale dell’Altro, è quella che Paul Gilroy chiama agnatology (citato dall’autrice). Il termine è stato coniato dallo stesso Gilroy, esponente dei Cultural Studies, in particolare della cultura nera inglese, docente dal 2012 al King’s College di Londra dove è nato nel 1956 da padre inglese e madre guyanese, la scrittirice Beryl Gilroy. Con questo termine indica

Il fenomeno per cui l’alterità dialettica e peggiorativa diffonde ignoranza strutturale circa coloro che, proprio perché altri, sono collocati fuori dalle categorie che attribuiscono l’appartenenza all’umanità.

Quindi i processi dialettici negativi di sessualizzazione, razzializzazione, naturalizzazione provocano la produzione di mezze verità o di forme di sapere parziale circa questi altri.

Esempi di questo sono, a mio avviso, il trattamento che ha ricevuto il corpo della donna o delle persone transessuali da parte della scienza occidentale o tutti i miti che circolano sugli animali anche domestici, che pur vivendo accanto a noi vengono “rivestiti” con tutta una serie di narrazioni ricorrenti tali da farceli sembrare odiosi e che non corrispondono alla realtà.

A riduzione poi alla stato subumano degli altri non occidentali è l’origine dell’ignoranza perdurante, della falsità e della cattiva coscienza del soggetto dominante, il quale è responsabile della loro disumanizzazione epistemica e sociale.

In Italia si pensi al popolo Rom, ad esempio.

Dopo aver percorso le “regioni” e le ragioni della critica e della destrutturazione dell’ideale umanistico, violento e mortifero per tutt* quell* che si sono trovati incarnati in un corpo altro rispetto all’uomo vitruviano, Braidotti comincia a presentarci le cartografie dell’era postumana.

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È un fatto storico che i più grandi movimenti emancipatori della postmodernità siano guidati e alimentati dagli altri emergenti: i movimenti per i diritti di donne, gay, lesbiche e transessuali; i movimenti antirazzisti e anticoloniali, i movimenti antinucleari ed ambientalisti sono i megafoni degli altri strutturali della modernità” (ed io qua sarei felice di inserire l’antispecismo e di dare voce direttamente agli altri naturalizzati, svincolandoci da una visione paternalistica della lotta per la liberazione animale).

Essi contrassegnano la crisi del precedente centro umanista o della posizione dominante del soggetto, eppure non sono meramente antiumanistici, in quanto superano l’antiumanesimo in direzione di una storia e di un progetto completamente postumani” (per l’autrice è impossibile superare del tutto l’umanesimo ed il postumano è la condizione storica che segna la fine dell’opposizione tra umanesimo e antiumanesimo e che designa un contesto discorsivo differente, guardando in modo più propositivo a nuove alternative).

Questi movimenti sociali e politici sono al contempo il sintomo della crisi del soggetto, per i conservatori ne sono addirittura la causa, e l’espressione di alternative positive e propositive.

Mi viene in mente la crisi della famiglia e della sua norma eterosessista, che è al centro di grossi dibattiti in Italia e di manifestazioni d’odio verso le famiglie “altre”, che sono colpevoli, nella mente e nella politica dei conservatori, che ancora fanno le leggi in questo paese, di distruggere l’impianto ortodosso e naturale dell’unione del matrimonio eterosessuale.

Queste famiglie altre, invece, decostruendo la famiglia “tradizionale” italiana, semplicemente anche attraverso la loro esistenza e la loro richiesta a non venir discriminate, sono portatrici di un rinnovamento salutare dell’idea e della prassi di struttura famigliare ( di solito non sono sessiste e patriarcali, educano i figli con stili più libertari e rispettosi della peculiarità e dei bisogni di ognun* e educano all’accoglienza dell’altro).

Giungiamo quindi nel territorio più interessante per un* lettore/lettrice antispecista, a quelle cartografie che ci possono veramente fare da guida per evitare gli impervi tranelli dell’essenzialismo umanista, in cui anche il pensiero antispecista, se non accorto, può facilmente scivolare.

Ecco quindi il paesaggio del postumanesimo critico, un punto di vista che

Rifiuta l’individualismo, distanziandosi ugualmente dal disfattismo relativista e nichilista. Esso promuove un legame etico di una forma del tutto differente da quella del soggetto individuale e dei suoi interessi, come definito dalle categorie canoniche dell’umanesimo classico.

L’etica postumana per un soggetto non unitario propone un profondo sentimento di interconnessione tra sé e gli altri, inclusi i non umani.

L’era postumana è carica di contraddizioni, queste contraddizioni richiedono una valutazione etica, un intervento politico e un’azione normativa. Ne segue quindi che il soggetto postumano non è postmoderno, cioè non è antifondazionalista e neppure decostruttivista, perché non è strutturato linguisticamente.

La soggettività umana che l’autrice difende è piuttosto materialista e vitalistica, incarnata e integrata, saldamente collocata in luoghi precisi.

È fondamentale, secondo me, che di questa collocazione sia ben conscio chi porta avanti un pensiero critico e di liberazione, per non universalizzare prassi e pensieri che possono essere invece carichi di privilegi.

Una teoria della soggettività che sia al contempo materialistica e relazionale, natural-culturale e capace di autorganizzarsi è cruciale al fine di elaborare strumenti critici adatti alla complessità del nostro tempo.

Per far emergere questa soggettività, Braidotti si rifà alla filosofia di Spinoza, secondo cui la materia, il mondo e gli umani sono entità strutturatesi dialetticamente. Rifiuto quindi della dicotomia cartesiana Mente/Corpo. Per Spinoza la materia è una, guidata dal desiderio di autoespressione e ontologicamente libera.

Si arriva quindi al concetto di egalitarismo zoe-centrato, il centro del postantropocentrismo, che è la parte che più ci interessa come antispecisti

La vita, invece di essere definita come proprietà esclusiva e diritto inalienabile di una sola specie, quella umana su tutta le altre, viene intesa come processo interattivo e senza conclusioni.

Per l’autrice questo concetto della zoe è una risposta materialistica, laica, fondata e concreta all’opportunistica mercificazione transpecie che è la logica del capitalismo avanzato.

Attenzione però alle posizioni neo-fondamentaliste, come quelle dei difensori del determinismo biologico o della legge naturale o dell’olismo ecologico. Il rischio di essenzialismo è alto.

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Nella mia esperienza ho purtroppo rilevato, in molt* antispecist*, un fondamentalismo che ha portato a giudizi transfobici sulla mia persona, perché in quanto trans andavo “contro natura”.

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A essere decostruita è la supremazia della specie, a venire in primo piano, invece è il continuum natura – cultura.

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Quindi, se fino ad ora, grazie alla messa in discussione dell’ideale regolatore umanistico, le rivendicazioni degli altri umani emergenti hanno fatto irruzione nella storia del pensiero e dell’azione politica e sociale, con la messa in discussione della centralità della nostra specie, possono emergere anche le istanze degli animali non umani

“Una volta sfidata la centralità dell’anthropos, un certo numero di confini tra l’uomo e gli altri da sé cominciano a cadere, con un effetto a cascata che apre prospettive inaspettate. Così se il declino dell’umanesimo inaugura il postumano esortando gli umani sessualizzati e razzializzati a emanciparsi dalla relazione dialettica servo-padrone, la crisi dell’anthropos spiana la strada all’irruzione delle forze demoniache degli altri naturalizzati.

Il postantropocentrismo destituisce il concetto di gerarchia tra specie ed il modello di uomo come misura di tutte le cose”.

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Ma per attuare questa destituzione c’è una gigantesca barriera di ancestrali abitudini e pratiche di linguaggio. Il linguaggio è lo strumento antropologico per eccellenza.

Ed opera quello che l’autrice chiama narcisismo ontologico

Il soggetto dominante decide le qualità che include e si vanta di esemplificare e quelle che esclude, attribuendole agli altri declassati.”

Filippi e Trasatti, nel loro libro Crimini in tempo di pace analizzano un meccanismo simile quando parlano di macchine antropoietiche, ossia di meccanismi linguistici e sociali che “creano” confini, tra cosa è l’uomo e cosa no, abbandonando alla sofferenza chi è dalla parte “sbagliata” del confine.

La dialettica dell’alterità è il motore interno del potere umanista dell’uomo, il quale distribuisce le differenze su una scala gerarchica come metodo per governarle. Tutti gli altri modelli di tipo corporeo sono allontanati dalla posizione del soggetto, pur includendo essi alcuni altri antropomorfi: non bianchi, non maschi, non normali, non giovani, non in salute, disabili, malformati o in età avanzata.

Tutti questi altri sono descritti in termini peggiorativi, sono patologizzati ed espulsi dalla normalità, sono spostati sul versante dell’anomalia, della devianza, della mostruosità e della bestialità. Questo processo è completamente antropocentrico, secondo linee di sesso e razza in quanto sostiene ideali estetici e morali basati sulla civilizzazione europea bianca maschilista ed etorosessuale (che sono quindi anche gli ideali del “nostro” fascismo).

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Ritorno molto su questo argomento proprio in virtù della mia posizione di altro, cacciato dal “consorzio umano” in quanto persona transessuale (anche se già prima, come donna non eterosessuale, ero un “soggetto problematico”).

Braidotti riprende una classificazioni degli animali altro da umani proposta dallo scrittore argentino Jorge Louis Borges (nato a Buenos Aires il 24 agosto 1899 e morto a Ginevra il 14 giugno 1986), suddivisi in tre gruppi:

  • quelli con cui guardiamo la televisione;
  • quelli che mangiamo;
  • quelli di cui abbiamo paura.

Classificazione interessante perché mostra il confinamento delle nostre relazioni con l’altro animale secondo delle categorie classiche

  • relazione edipica (io e te seduti sul divano)
  • relazione strumentale (tu sarai eventualmente consumato)
  • relazione fantasmatica (oggetti esotici ed estinti di info-trattenimento e trastullo).

 

L’animale altro da umano è quindi il più necessario, familiare e prezioso altro dell’anthropos.

La relazione edipica è quella che trovo più interessante, in un contesto come questo dove cerchiamo di renderci accorti delle nostre azioni e dei nostri pensieri, anche i più reconditi, all’interno di un’azione antispecista.

la relazione edipica tra umani ed animali è ineguale ed anch’essa dominata dall’“uomo” e dalla consuetudine strutturalmente maschile a dare per scontato l’accesso diretto ed il consumo del corpo dell’altra, animali inclusi. Come modello di relazione, è inoltre, nevrotica, essendo satura di proiezioni , tabù e fantasie. Simbolizza anche la suprema arroganza ontologica di un soggetto umano che considera che tutto gli sia dovuto.

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Jacques (Jackie) Derrida (Algeri, 15 luglio 1930 – Parigi, 9 ottobre 2004), si riferisce al potere della specie umana sugli altri animali con il termine di carno-fallologocentrismo

nel capitalismo avanzato animali di ogni specie e categoria vengono trasformati in corpi disponibili e commerciabili.

il traffico di animali rappresenta oggi il più ampio mercato globale. dopo quello delle armi e le droghe ma prima di quello delle donne.

“L’attuale pensiero postantropocentrico ha come effetto una nuova animalità anti-edipica all’interno di una tecno-cultura che cambia velocemente e che innesca mutazioni a tutti i livelli.

La sfida è capire come deterritorializzare, come rendere nomade l’interazione umano-animale (in divenire e nel contempo incarnato e situato), in modo tale da superare la metafisica della sostanza ed i suoi corollari, la dialettica dell’alterità.

Ciò comporta anche la desacralizzazione del concetto di natura umana e della vita che la anima.

Possono cani e gatti essere misura di qualcosa, sia pure di non tutte le cose?

Può questo sostituire la gerarchia che tacitamente sottende all’ autorappresentazione umanista?

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Umanesimo compensatorio

In questa parte del libro (da p. 84 a p. 88) l’Autrice parla esplicitamente dei movimenti a favore degli altri animali, cogliendone le note positive ma anche, secondo lei, delle forti criticità che l’allontanano dal suo pensiero.

Durante la seconda metà del XX secolo, la questione dei diritti animali ha acquistato slancio in molte democrazie liberali avanzate…critica allo specismo ovvero all’arroganza dell’Uomo come specie dominante la cui prepotenza dà per scontato l’accesso al corpo degli altri. Gli attivisti per i diritti degli animali difendono la fine dell’antropolatria, l’assunzione della superiorità umana, e lottano per un maggiore priorità degli interessi delle altre specie e organismi.

Nella teoria dei diritti animali, tali premesse analitiche postantropocentriche si combinano a elementi del neoumanesimo per riproporre una serie di valori umanisti.

E cioè presupporre che gli altri animali

posseggano identità univoca, coscienza autoriflessiva, razionalità morale e capacità di condividere emozioni come l’empatia e la solidarietà.

Le ipotesi epistemologiche e morali che sorreggono questa posizione sono state adottate sin dall’illuminismo, ma precedentemente erano riservate ai soli umani, a scapito di tutti gli agenti non umani. i sostenitori dei diritti per gli animali , che definisco come neoumanisti postantropocentrici, convergono sulla necessità di difendere ed espandere questi valori ad altre specie.

La ragione per cui sono in qualche modo scettica nei confronti del neoumanesimo postantropocentrico consiste nel fatto che esso non è critico rispetto all’umanesimo in sé. I tentativi di compensazione per conto degli animali generano quella che io definisco una sorta di tardiva solidarietà tra gli abitanti umani del pianeta, oggi traumatizzati dalla globalizzazione, dalla tecnologia e dalle nuove guerre, e i corrispettivi altri animali.

Si tratta di un fenomeno bivalente, dal momento che combina un sentimento negativo tra le specie (di vulnerabilità globale) con un piuttosto magnanimo accento morale umanista (paternalismo?). In questo abbraccio transpecie l’umanesimo viene reimposto acriticamente sotto l’egida dell’egalitarismo delle specie.

…l’estensione dei privilegi dei valori umanisti alle altre categorie difficilmente può essere considerata una mossa disinteressata e generosa, più facilmente come il tentativo di rendere produttiva tale inclusione. Sostenere il legame vitale tra gli esseri umani e le altre specie è non solo necessario ma anche utile. Ritengo questo legame negativo in quanto effetto della vulnerabilità condivisa, che è essa stessa una conseguenza delle azioni umane sull’ambiente. È forse questo il momento in cui gli umani estendono ai non umani la loro continua ansia per il futuro.

Antropomorfizzare così da estendere agli animali il principio morale di uguaglianza morale e giuridica è difettoso per due motivi:

  • conferma il sistema binario di distinzione tra uomo e animale, imponendo, anche se per un buon fine, la categoria egemonica dell’umano agli altri
  • nega del tutto la specificità degli altri animali, perché li tratta in modo uniforme come simboli del valore transpecie, con uno stesso e universale sentimento di empatia.

A mio avviso il punto sulle relazioni postumane è quello di comprendere l’interrelazione tra umano e animale come costitutiva dell’identità di ciascuno. È un rapporto di trasformazione o di simbiosi che si ibrida e altera “la natura” di ciascuno per porre in primo piano i motivi centrali della loro interrelazione.

Questo è il milieu del continuum umano/non umano, e ha bisogno di essere esplorato come fosse un esperimento aperto, non come una deduzione morale scontata di valori presunti ed universali.

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Il gabbiano ritratto nella foto viene chiamato Luigi dagli umani che lo conoscono, umani che hanno negozi sulla via della città di Livorno, dove l’uccello ha scelto di nutrirsi, stando appollaiato sulle auto in sosta antistanti ad una pescheria e a una pizzeria. Luigi, con richiami o entrando direttamente negli esercizi commerciali e battendo al bancone con il forte becco, richiede bocconi di cibo che gentilmente riceve.

Questo gabbiano verrebbe definito da Braidotti come un cyborg

In qualità di composti natural-culturali, questi animali si presentano come cyborg, vale a dire come cretaure ibride, vettori di una relazionalità postumana.

Quello che apprezzo è la libertà di questo uccello, che pur avendo addestrato gli umani a dargli cibo, rimane un animale che si autodetermina.

Attualmente è di mio grande interesse esplorare le cartografie degli animali sinantropi, come enorme possibilità di esperimento “a cielo aperto” di relazioni tra altri animali che non siano basati sulla relazione edipica di cui si parlava prima, che, come detto, ritengo un pericolo sempre in agguato anche in ambiente antispecista.

La mia posizione attuale è quella di cercare di costruire un dialogo politico con gli altri animali, considerati però non solo a livello individuale ma anche come “gruppi sovrani”, irriducibili ai gruppi umani e portatori di istanze ognuno particolari.

Per questo, visto la difficoltà che questa azione pone, quasi completamente da inventare, mi piacerebbe poter studiare a fondo le situazioni dove questa relazione tra specie altre ed umani già esistono , e capire se ci sono momenti da salvare ed implementare nei modi in cui si è cercato di risolvere i problemi ed i conflitti che queste relazioni creano.

Se il fulcro del discorso è la relazione, gli antispecisti dovrebbero rivolgersi ai luoghi dove queste relazioni sono in atto, e secondo me , dove queste relazioni sono tra individui (più maggiormente gruppi) liberi, per fondare una zoopolitica.

Per questo ho trovato molto interessante l’articolo di Eve Meijer La comunicazione politica degli animali, apparso sul nr. 16 della rivista Liberazioni.

Essendo la giornata di studio politico LiberAzione Gener-ale 2, caratterizzata anche dal tentativo di definire delle proposte pratiche per portare avanti prassi di lotta per la liberazione, elenco qui quelle che secondo me derivano dallo studio di questa presentazione:

  • creare degli osservatori sugli animali sinantropi del nostro paese e studiare quelli di altri paesi;
  • creare progetti rivolti alla difesa (non paternalistica ma politica, non ambientale ma di diritti di specie) degli interessi di questi animali, da vedersi forse come minoranze (se non come numero, come potere);
  • studiare le prassi in voga attualmente nell’approccio e nella “gestione” di questi animali, capire se ci sono delle prassi corrette in quelle in vigore da implementare e crearne di nuove, soprattutto basate sulla relazione e sul dialogo politico.

 

*      Attivista lgbtqi e militante antispecista, fondatore e ideatore del progetto Ippoasi, componente del Collettivo Anguane (http://anguane.noblogs.org/), del collettivo Intersezioni (http://www.intersexioni.it/) e della redazione di Anet (http://www.antispecismo.net).



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